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PAGINA in ALLESTIMENTO

09 FU CROCEFISSO,
MORÌ E FU SEPOLTO

IL CREDO

 IL SIMBOLO DEGLI APOSTOLI
 •
Io credo in Dio, Padre onnipotente
creatore del cielo e della terra,
e in Gesù Cristo, suo unico figlio,
nostro Signore;
il quale fu concepito di Spirito santo,
nacque da Maria Vergine,
patì sotto Ponzio Pilato,
fu crocifisso, morì e fu sepolto,
discese agli inferi,
il terzo giorno risuscitò da morte,
salì al cielo,
siede alla destra di Dio Padre onnipotente;
di là verrà a giudicare i vivi e i morti.
Credo nello Spirito santo,
la santa Chiesa cattolica,
la comunione dei santi,
la remissione dei peccati,
la risurrezione della carne,
la vita eterna. Amen.

 
INTRODUZIONE
 
- Che cosa credono, esattamente, i cristiani?
- Qual è il contenuto fondamentale della loro fede?
- La fede è solo un fascio di credenze o l’adesione personale e vitale a Dio?
- Qual è la buona notizia (vangelo) che dobbiamo vivere e annunciare agli uomini d’oggi?
- Possiamo continuare a parlare del Dio vivo usando un linguaggio morto che l’uomo del XXI secolo non comprende più?
 
È necessario che interpretiamo nuovamente e riesprimiamo la fede eterna con le immagini, le idee e il linguaggio familiari alla gente del nostro tempo, con le parole di tutti i giorni: questo significa predicare il vangelo ad ogni creatura (cf. Mc 16,15) perché tutti sentano annunciare nella propria lingua le grandi opere di Dio (cf. At 2,11).
 
Occorre concentrare il contenuto della fede, annunciare il nocciolo centrale del cristianesimo: Dio Padre, Gesù Cristo, lo Spirito santo.
 
Dio Padre, Gesù Cristo, lo Spirito santo sono persone. La fede quindi non è un elenco di affermazioni, di dogmi; è l’incontro con Qualcuno, il legame personale e vitale con Qualcuno, l’introduzione in un mistero.
 
Il mistero non è una porta chiusa contro la quale sbattiamo la testa, ma è l’apertura su una realtà talmente grande che non riusciamo a comprendere e a godere pienamente, una realtà inesauribile. L’uomo è immerso nell’infinito oceano del mistero di Dio: "In lui, infatti, viviamo, ci muoviamo ed esistiamo" (At 17,28).
 
Dio è Qualcuno: questa è la migliore traduzione dell’"Io credo in Dio".
 
Dio ha voluto farci sapere che egli è Qualcuno che vive, che agisce, che ama. Sappiamo che questo Dio è con noi sempre (Mt 28,20) e che noi saremo sempre con lui (Gv 14,2-3; 1Ts 4,17).
 
Su questo Qualcuno possiamo impostare uno studio scientifico: ne risulterà un dossier esatto e completo. Ma di questo Qualcuno possiamo fare anche l’incontro personale, un incontro d’amore fino alle estreme conseguenze.
 
Trattandosi di Dio, nel primo caso si fa dell’istruzione religiosa e della teologia; nel secondo, scopriamo un amore, un amore attuale, per l’oggi, per la vita, per la morte, per l’eternità.
 
Non serve fare studi su Dio, fare sintesi sui contenuti della fede se prima non abbiamo incontrato nella fede questo Qualcuno che si manifesta nella nostra vita, nella nostra storia, nella nostra esperienza di uomini. Qualcuno che risponde anche all’incredulo nella sua inquietudine, al sofferente nel suo tormento. Qualcuno che ama tutti per primo (1Gv 4,19).
 
Un Dio dei filosofi e dei sapienti, un Dio teorico e lontano, fuori dalla storia e dall’esperienza umana, non esiste. E se anche esistesse non ci interesserebbe.
 
Certo, esiste una scienza della religione cristiana, ma la fede è più che una scienza: è una vita. Esiste una dottrina cristiana, ma è una dottrina di vita. Esiste una conoscenza, ma è la conoscenza di Qualcuno. Pertanto possiamo istruirci solo seguendo un metodo di vita, che parta dalla vita e vada alla vita per viverne concretamente.
 
Un amore nasce e cresce non accumulando conoscenze su qualcuno, ma approfondendo la conoscenza di qualcuno, frequentandolo spesso e a lungo. Frequentare Dio, ascoltare la sua parola, sperimentare la sua presenza, pregarlo: questo è il metodo di ogni catechesi. Amarlo per comprenderlo meglio, comprenderlo per amarlo di più.
 
Chi recita il "Credo" non elenca idee astratte, ma richiama delle Persone, dei fatti, una storia, le "opere di Dio", dalla creazione sino alla fine dei tempi: un impegno divino in nostro favore, per amore. Al centro di tutto stanno la morte e la risurrezione di Gesù Cristo. Questo è il fatto essenziale, la meravigliosa notizia che deve essere gridata a tutti perché costituisce l’atto stesso della salvezza.
 
Questo fatto capitale si presenta come un avvenimento storico debitamente constatato, occupa il centro del cherigma (ciò che si "grida" innanzitutto, quando si annuncia la buona novella) di cui veramente costituisce l’essenziale.
 
Il "credo" può essere diviso in tre parti:
 
prima parte: Dio-Amore, Dio-Padre, fonte della vita, che dona il Figlio suo;
 
seconda parte: Gesù Cristo, crocifisso e risorto;
 
terza parte: Il Padre e il Figlio che donano lo Spirito, fondano la Chiesa come luogo di fraternità, di perdono, di vita in questo Spirito mentre attendiamo il giorno della manifestazione del Signore nel quale Cristo verrà glorioso a giudicare i vivi e i morti.
 
Sono tre tappe storiche che possono essere facilmente riferite alle tre persone della Trinità: al Padre creatore, al Figlio salvatore, allo Spirito santificatore.


IO CREDO IN DIO

 
Tutti sono credenti, tutti un po’ increduli. La frase famosa "credo solo quello che vedo" è falsa e contraddittoria. Quando si vede non c’è più bisogno di credere, si constata. Ma non si può vedere tutto e constatare tutto. Ecco allora la necessità della fede: si crede perché lo dice uno che ha visto, sentito, constatato. E non è possibile vivere diversamente. Si crede alla moglie, al giornale; si crede in Dio, nel vangelo...
 
Certo, ognuno dice la sua. "Dio esiste, io l’ho incontrato" dice il credente. "Dio non esiste, non l’ho mai incontrato" dice l’altro. Ora i cristiani affermano che Dio si è manifestato, che continuamente si rivela, parla, risponde alla domanda che arde nel cuore dell’uomo. È la rivelazione: parola di Dio all’uomo per farsi conoscere dall’uomo.
 
Dio si rivela nella creazione. Tutto l’universo delle cose visibili è segno e manifestazione di intelligenza, di bontà, di amore. Per molti tutto questo dà origine a una fede rudimentale: la fede di chi crede a Dio, ossia crede che Dio esiste e che deve essere adorato.
 
Dio, innamorato dell’uomo sua creatura, ci parla soprattutto attraverso la sua presenza nella storia umana. La rivelazione giudeo-cristiana completa lo svelarsi di Dio al mondo: Dio è Qualcuno. La storia lo tocca con mano nel corpo stesso di Gesù Cristo nel quale abita tutta la pienezza della divinità (Col 2,9). Di conseguenza non si tratta più di credere a Dio, alla sua esistenza, ma di credere in Dio che parla e si rivela. Per credere a qualcuno basta vederlo o sentirne parlare. Per credere in qualcuno è necessario che egli ci ami e che noi lo contraccambiamo almeno un poco.
 
Chi vuole conoscere le tappe di questa presenza di Dio nella nostra storia umana apra la Bibbia che è il libro di famiglia in cui Dio e l’uomo raccontano la storia travagliata del loro amore. Dio, come ognuno che ama veramente, agisce più che parlare, fa quello che dice e dicendo spiega ciò che fa. Tutto il suo agire è amore e tenerezza. Basta che il cuore dell’uomo si apra a questa tenerezza divina, ed è subito la fede.
 
La fede in Dio non è un fatto che si impone universalmente e obbligatoriamente. Di fatto esistono credenti e non credenti e i loro rapporti non sempre sono improntati a rispetto e ad amore vicendevole. Molti credenti pensano che ogni persona onesta può conoscere Dio senza esitazione e difficoltà e concludono dicendo che gli atei sono o degli stupidi o dei disonesti. A favore della loro affermazione citano la parola di Dio e il magistero della Chiesa. "In realtà l’ira si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità; essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa" (Rm 1,18-21). "Il sacro concilio professa che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza con il lume naturale della umana ragione dalle cose create" (DV 6).
 
Ma bisogna fare i conti con la mediocrità dei credenti e dei cristiani in particolare: i credenti e le loro chiese presentano spesso un volto di Dio deformato e inaccettabile. Lo dice il magistero della Chiesa: "Senza dubbio, coloro che volontariamente cercano di tenere lontano Dio dal proprio cuore e di evitare i problemi religiosi, non seguendo l’imperativo della loro coscienza, non sono esenti da colpa; tuttavia in questo campo, anche i credenti spesso hanno una certa responsabilità. Infatti l’ateismo deriva da cause diverse e tra queste va annoverata anche una reazione critica contro le religioni e, in alcune regioni, proprio anzitutto contro la religione cristiana. Per questo nella genesi dell’ateismo possono contribuire non poco i credenti, in quanto per aver trascurato di educare la propria fede, e per una presentazione fallace della dottrina, o anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della religione" (Gs 19).
 
Bisogna concludere che la fede nell’esistenza di Dio è possibile. Di fatto molti ci sono arrivati. Altri purtroppo no, per motivi che forse solo loro conoscono. Non tocca a noi giudicare. "Dio giudicherà i segreti degli uomini" (Rm 2,16). "Tutti infatti ci presenteremo al tribunale di Dio... Ognuno renderà conto a Dio di se stesso. Cessate dunque dal giudicarvi gli uni gli altri; pensate invece a non essere causa d’inciampo o di scandalo al fratello" (Rm 14,10-13).
 
Forse noi abbiamo sulla coscienza qualche ateo perché non siamo stati credenti credibili.
 
Di fatto, la ragione umana non è arrivata a costruire una rigorosa dimostrazione dell’esistenza di Dio. Non possiamo parlare di "prove", ma solamente di "vie" verso Dio, di accostamenti a Dio attraverso la ragione. Dio è discreto e non vuole imporsi. L’esistenza di Dio non è scientificamente evidente e documentabile come il giorno e la notte. No, l’esistenza di Dio non è evidente. E ancor meno la sua natura. "Dio nessuno l’ha mai visto" (Gv 1,18).
 
Dio abita una luce inaccessibile; nessuno fra gli uomini l’ha mai visto né può vederlo (cf. 1Tm 6,16).
 
Il regista Clouzot diceva "Ciò che mi aiutò a credere fu l’assenza di prove dell’esistenza di Dio. Dio nascosto. Per me, questa assenza di prove è la prima prova. Infatti, se Dio rispetta l’uomo, deve voler da parte nostra un’adesione libera; non ci deve porre nella necessità di credere in lui". Dio o è invisibile o non esiste. Invisibile come il mio spirito, il mio amore, il mio principio vitale, ma infinitamente più grande, di quella grandezza che non entra nelle dimensioni misurabili. Sì, Dio è un Dio nascosto perché è Dio!
 
Ma questo Dio invisibile non potrebbe essere una bella illusione?
 
S. Giovanni, dopo la frase: "Dio nessuno l’ha mai visto" soggiunge: "proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato" (Gv 1,18).
 
È vero, non abbiamo mai visto Dio. Ma se crediamo, è perché Dio ha parlato, ha interpellato l’uomo per dirgli la propria esistenza, per rivelargli il proprio nome, per svelargli il suo amore, i suoi progetti. Dio fa irruzione nel mondo degli uomini per amore. Parla ad Abramo, a Mosè, a tutto il popolo d’Israele. E infine parla nell’umanità visibile, tangibile di Gesù di Nazaret: Dio fatto uomo, annunciato nelle Scritture, incarnato nella storia, duemila anni fa, in Palestina, morto sotto Ponzio Pilato, risorto e glorificato, sempre presente nella Chiesa e sempre operante nel mondo. Ecco la fonte del cristianesimo.
 
Ma non ci sono solo i cristiani a credere in Dio. Sotto una forma o l’altra tutto il mondo conosciuto ha affermato l’esistenza di Dio. Oggi egli continua ad animare un dibattito sempre acceso tra chi lo afferma e chi lo nega: è sempre uno dei temi più ricorrenti e insistenti. Rari sono coloro che rifiutano una credenza senza rifugiarsi in un’altra. Non ci si scarica troppo facilmente di Dio, tanto numerose sono le ragioni per credere che c’è un Dio.

 
1.1 Ma quale Dio?

 
Solo Dio può parlare rettamente di Dio. Per conoscerlo bisogna ascoltare la sua parola, leggere e rileggere la Bibbia e soprattutto il Vangelo.
 
È necessario che prendiamo le debite distanze da un certo linguaggio su Dio. È il linguaggio, per intenderci, di certi catechismi del passato: quello delle formule astratte e magniloquenti.
 
Allora, era tutto falso? No, non era falso. Ma Dio non parla in questo modo di se stesso. Un simile linguaggio aveva poca presa allora e ora non ne avrebbe affatto.
 
Il Concilio Vaticano II ci ha invitati a cambiare linguaggio, "a sempre ricercare modi più adatti di comunicare la dottrina cristiana agli uomini della nostra epoca, perché altro è il deposito o le verità della fede, altro è il modo in cui vengono enunciate, rimanendo pur sempre lo stesso il significato e il senso profondo" (Gs 62).
 
L’umanità sta vivendo la più grande metamorfosi della sua storia. Una metamorfosi mai vista; non la prima, ma la più macroscopica. Lo stesso Dio vuole essere presentato a questa umanità concreta con formule nuove, o meglio, con le formule antiche che lui stesso ha usato, ma ripulite dalle incrostazioni che i secoli, le filosofie e le teologie vi hanno depositato. La  Chiesa, se vuole che la sua dottrina sia compresa, non ha altro mezzo che la cultura e le forme di pensiero del tempo e del luogo in cui essa vive.
 
In passato la filosofia greca di Platone e di Aristotele, la filosofia ancella della teologia, ha fatto spesso da padrona. Così certe nostre idee su Dio, che crediamo cristiane, in realtà spesso sono un modo di vedere della filosofia pagana che abbiamo sovrapposto a quanto ci dice la Bibbia e soprattutto il Vangelo.
 
Il papa Giovanni XXIII nel discorso di apertura del Concilio Vaticano II (11 Ottobre 1962) afferma: "Lo scopo principale di questo Concilio non è la discussione di questo o quel tema della dottrina fondamentale della Chiesa... Per questo non occorreva un concilio. Ma dalla rinnovata, serena e tranquilla adesione a tutto l’insegnamento della Chiesa nella sua interezza e precisione... lo spirito cristiano, cattolico ed apostolico del mondo intero, attende un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze; è necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo. Altra cosa è infatti il deposito stesso della fede, vale a dire le verità contenute nella nostra dottrina, e altra cosa è la forma con cui quelle vengono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata. Bisognerà attribuire molta importanza a questa forma e, se sarà necessario, bisognerà insistere con pazienza nella sua elaborazione; e si dovrà ricorrere ad un modo di presentare le cose, che più corrisponda al magistero, il cui carattere è preminentemente pastorale".
 
Per farla breve, noi crediamo nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, nel Dio di Gesù Cristo: un Dio vivente, non il dio immobile dei filosofi; un Dio di ieri, di oggi, che va verso un domani, un Dio storico, che vive la storia con noi, in mezzo a noi, sulla nostra terra d’uomini. Dio non è "altrove". Non esiste un "altrove". C’è solo il "Dio con noi", l’Emmanuele. Il Dio che si è rivelato in Gesù Cristo. "Se conoscete me, conoscerete anche il Padre; fin da ora lo conoscete e lo avete veduto... Chi ha visto me ha visto il Padre... Io sono nel Padre e il Padre è in me" (Gv 14,7-11). Gesù Cristo è l’unico, in senso assoluto, che può farci conoscere il vero Dio. "Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare" (Mt 11,27).
 
Noi crediamo, appunto, in questo Dio che Gesù ci rivela, in questo Dio imprevedibile e sconvolgente: questo è il Dio che dobbiamo annunciare ai nostri figli e al mondo. Non dobbiamo quindi aver paura di cambiare linguaggio, liberandoci dalle filosofie del passato senza incappare in quelle del presente.

 
1.2 In un solo Dio

 
"Credo in un solo Dio" non è una dichiarazione che ci lascia beatamente tranquilli: è un grido rivoluzionario, è una dichiarazione di guerra.
 
Credo in un solo Dio e rifiuto tutti gli idoli. Rifiuto le divinità davanti alle quali si prostra e si prostituisce il mondo: il potere, il sesso, il dio quattrino che compra quasi tutto e quasi tutti, le filosofie, le ideologie... .
 
Nell’impero romano era necessario adorare l’imperatore e altre divinità. I primi cristiani erano, quindi, perseguitati come atei. S. Giustino martire (+165 d.C.) affermava: "È vero: dato che non crediamo agli idoli dei pagani, siamo gli atei di questi presupposti dei".
 
"Credo in un solo Dio" significa rifiuto di ogni potere assolutistico, sia civile che religioso: rifiuto di atteggiamenti servili davanti ai grandi e ai potenti. Maria ha proclamato: "Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi" (Lc 1,51-53). Dobbiamo abbattere la selva delle false divinità che umiliano la nostra dignità umana e bloccano la crescita della vera libertà. Solo l’adorazione dell’unico Dio è liberante. Servire Dio è regnare!
 
La professione di fede in un solo Dio costituisce un programma d’incalcolabile importanza politica. Da una parte conferisce a ogni uomo un carattere assoluto a causa del suo riferimento personale a Dio; dall’altra relativizza tutte le società politiche e religiose: esse, o si radicano in questo Dio unico e lo servono, o non sono nulla e non possono pretendere nulla.
 
Senza l’adorazione cieca di molti cristiani per il potere di Hitler, il nazismo e l’ultima guerra sarebbero stati impossibili. Sarebbe bastato che tutti i cristiani avessero detto in spirito e verità: "Credo in un solo Dio!". Sonnecchiare sul proprio credo porta a gravi conseguenze. Il Credo non è un testo da declamare o da abbellire coi ghirigori del canto gregoriano, della polifonia o della musica moderna: bisogna viverlo!
 
Il potere è servizio; diversamente è un idolo che corrompe l’uomo e la società.
 
Il sesso è a servizio dell’amore e della vita; non è un bene di consumo o uno svago. Sganciato dal progetto e dalle finalità affidategli da Dio, diventa il dio-sesso. Ha molti adoratori!
 
L’anti-dio per eccellenza è il denaro. Gesù ha cacciato l’anti-dio dalla casa di Dio (Mt 21,12-13) perché Dio non è in vendita. Nella casa di Dio non c’è nulla da vendere e nulla da comperare: Dio è amore e gratuità. "Un servitore non può servire due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza" (Lc 16,13).
 
"L’avidità del denaro è la radice di tutti i mali" (1Tm 6,10). Cristo fu tradito per denaro (Mc 14,10-11) e l’affare continua!
 A questo punto forse sentiamo già qualcosa che stride dentro di noi. Ci stiamo accorgendo di essere superficiali, di essere "gente di poca fede" (Mt 6,30). Ci verrebbe spontaneo cambiare il "Credo in un solo Dio" in "Credevo di credere in un solo Dio". Sarebbe un atto di umiltà doveroso e commovente, ma non può diventare accomodante. Il Credo è il simbolo, la parola di riconoscimento, la carta di identità dei cristiani. Più ancora, il Credo è, a grandi linee, lo schizzo della vera immagine di Dio e della storia della salvezza: non può essere cambiato. Dobbiamo convertirci al Credo se vogliamo essere cristiani credenti e credibili.


PADRE ONNIPOTENTE

 
Dio ama ogni uomo e non lascia da parte nessuno. Cristo, "la luce vera, quella che illumina ogni uomo" (Gv 1,9), proietta su ciascuno un inizio di rivelazione. Non dobbiamo mai dimenticarlo: Cristo illumina ogni uomo. Il balbettio dei pagani, dei filosofi, dei sapienti, ogni conquista del pensiero umano sulla conoscenza di Dio è già un approccio con Dio. Ma per passare dal "dio ignoto" (At 17,23) alla conoscenza del vero Dio è necessario accogliere la rivelazione che questo Dio fa di se stesso attraverso la storia e in Gesù di Nazaret, nella chiesa.
 
"Io credo in Dio Padre onnipotente". Notate! Noi non crediamo in Dio onnipotente. Noi crediamo in Dio Padre, professiamo il Padre onnipotente. Il termine Padre cambia tutto. "Dio" non ha più il significato di prima; e nemmeno l’attributo "onnipotente". Padre, infatti, è un essere amoroso e Dio, così, è un Dio d’amore. Nient’altro. Un Dio-Padre-Amore onnipotente.
 
Dio è il tenerissimo Padre di tutti e di ciascuno, la fonte di ogni paternità e maternità in cielo e sulla terra. Dice la Scrittura: "Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti" (Ef 4,6). "Piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ha origine ogni discendenza nei cieli e sulla terra" (Ef 3,14-15).
 
Gesù ci ha insegnato a parlare con Dio chiamandolo "Padre nostro" (Mt 6,9). Prima di morire, Gesù riassume la sua vita e la sua missione con queste parole: "Padre, ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini" (Gv 17,6).
 
Il Dio rivelato dalla Bibbia è allo stesso tempo maestoso e familiare: Dio è la maestà, Padre la familiarità. La parola di Dio quando ci rivela il Padre non si richiama alla nostra esperienza di figli nei confronti dei nostri genitori. Ci rimanda invece alla nostra esperienza adulta di padre e di madre nei confronti dei nostri figli: "Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai!" (Is 49,15). "Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. Ma più lo chiamavo, più si allontanava da me... A Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla guancia; mi chinavo su di loro per dargli da mangiare" (Os 11,1-4). "Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede pane, gli darà una pietra?... Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono" (Lc 11,11-13). Altri testi: Is 66,13; Sal 103,13; Pr 3,11-12; Lc 15,11-32; ecc.
 
Il filone sotterraneo della rivelazione è qui; questa è la chiave che ci apre il mistero di Dio: Dio-Padre rimanda all’esperienza dei genitori. All’esperienza dei genitori amorosi di cui la terra è piena, all’esperienza della tenerezza paterna e materna che i figli a loro volta proveranno quando saranno diventati adulti e sentiranno ciò che prima ignoravano quasi completamente: che cosa significa essere padre o madre.
 
Balzac fa dire al suo Papà Goriot: "Io ho veramente compreso ciò che poteva significare essere Dio, solo quando sono diventato padre". Dobbiamo aggiungere che anche i padri e le madri possono guardare al Padre celeste in una falsa ottica. Infatti la paternità e maternità umane, per quanto splendide, non possono "dare il la" a Dio. La cosa si pone nei termini opposti: la paternità di Dio viene per prima; questa paternità è fonte d’ogni paternità in cielo e sulla terra (Ef 3,15). Dio-Padre non è a immagine dell’uomo-padre, ma è l’uomo che è creato a immagine di Dio. Dio è infinitamente più Padre di quanto lo sia il migliore dei padri tra gli uomini. L’esperienza così eloquente della paternità umana ci può aiutare a intravedere ciò che può essere la paternità divina. Tuttavia il cuore paterno e materno è solo un pallido raggio dell’amore paterno di "Dio Padre onnipotente". In verità solo Dio è padre: "Non chiamate nessuno padre sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello dei cieli" (Mt 23,9).

 
2.1 Padre di tutti e di ciascuno

 
In ogni pagina della Bibbia cogliamo l’azione paterna di Dio in mezzo agli uomini suoi figli. Dio non fa chiacchiere d’amore, non si perde in vuote dichiarazioni come i paternalisti. Si chiama "Io-Sono-qui" (Es 3,14), e la sua grande famiglia ne constata la presenza e l’azione potente negli avvenimenti della propria vita. Solo successivamente Dio parla per far capire chi egli è: "Non è lui il padre che ti ha creato, che ti ha fatto e che ti ha costituito?" (Dt 32,6).
 
Israele è sì un figlio degenere, ma un figlio che sa a chi rivolgersi, che sa quale corda toccare: "Dove sono il tuo zelo e la tua potenza, il fremito della tua tenerezza e la tua misericordia? Non forzarti all’insensibilità perché tu sei nostro padre... Tu, Signore; tu sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore" (Is 63,15-16). E la fiducia di questo Israele impenitente avrà sempre l’ultima parola perché Dio ha un debole per lui: "Non è forse Efraim un figlio caro per me, un mio fanciullo prediletto? Infatti, dopo averlo minacciato, me ne ricordo sempre più vivamente. Per questo le mie viscere si commuovono per lui, provo per lui profonda tenerezza. Oracolo del Signore" (Ger 31,20). Pedagogo paziente, perché Padre perfetto, Dio nell’Antico Testamento ha svelato solo una piccola parte del mistero infinito della sua paternità.
 
Attraverso la storia dell’Antico Testamento si è rivelato Padre solo d’un gruppo particolare, del popolo d’Israele. Ma la rivelazione del Vangelo, di tutto il Nuovo Testamento è questa: Dio è Padre di tutti i popoli, di tutti gli uomini; è Padre d’ogni uomo di qualunque razza e di qualunque colore, del buono e del peccatore, dell’"ultimo". Il Padre che è nei cieli mi conosce personalmente, pensa a me e mi ama. Io, che forse sono senza importanza per tutti, non sono senza importanza per lui; io conto molto per lui.
 
Padre "celeste" o Padre che sei nei "cieli" non significa affatto Padre tra le nuvole, lontano, altrove rispetto a noi. Non esiste un altrove. Tali termini sono un’espressione di san Matteo in sostituzione del termine "Dio" che non si osava pronunciare in ambienti giudeo-cristiani; significano, quindi, "Padre Dio", Padre nostro che sei Dio. S. Teresa di Lisieux traduceva "Padre nostro che sei nei cieli" così: "Papà, che sei il buon Dio".
 
"Papà, il buon Dio" si occupa di ciascuno come se fosse il suo unico figlio. "Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure neanche uno di essi cadrà a terra senza che il Padre vostro lo voglia. Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati; non abbiate dunque paura: voi valete ben più di molti passeri!" (Mt 10,29-31).
 
Così la preoccupazione per l’alloggio, il cibo, il vestito è superata per un figlio di Dio. Certo, sono necessari il lavoro, la previdenza, ma l’affanno no: "Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro che è nei cieli, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate anzitutto il suo regno e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Dunque non preoccupatevi del domani, perché il domani stesso si preoccuperà di sé. A ciascun giorno basta la sua pena" (Mt 6,32-34).
 
Dio è Padre di tutti. Tutti sono figli del buon Dio: il nero e il bianco, l’arabo e l’israeliano, il bandito e il santo, il credente e il non credente. Egli ama tutti con lo stesso cuore paterno e comanda a noi di fare altrettanto: "Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli: egli infatti fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani?... Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli " (Mt 5,44-47).

 
2.2 Padre onnipotente

 
La Bibbia, rivelandoci che Dio è Padre, ha letteralmente capovolto l’idea che gli uomini avevano della maestà di Dio. Poter chiamare "papà", il buon Dio, non per modo di dire, ma perché è proprio così, apre veramente i nostri cuori a una gioia indicibile: "Vedete che grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!" (1Gv 3,1).
 
Affermare che Dio Padre è onnipotente non è un modo per negare la sua tenerezza e rimetterci sotto l’incubo della sua maestà. Quando eravamo bambini pensavamo istintivamente che il nostro papà era onnipotente, o quasi. Ci sollevava in alto come fuscelli; le sue braccia erano così forti da portare il mondo. Questa forza ci incantava, ci dava sicurezza, non ci faceva paura: era la forza dell’amore del nostro papà!
 
Il nostro Padre onnipotente è il "Signore Dio dell’universo". Tutto questo non solo non ci atterrisce, ma, al contrario, ci esalta perché Dio, come ogni padre degno di questo nome, mette tutto se stesso e le sue qualità al servizio dei suoi figlioli e a loro difesa.
 
La visione cristiana di Dio salda in lui gli estremi opposti: la potenza assoluta e l’amore assoluto, la distanza assoluta e la prossimità assoluta, l’essere assoluto e liberissimo e l’essere legato all’uomo con il quale Dio si è mirabilmente compromesso.
 
Il nostro Padre onnipotente, con l’incarnazione del suo Figlio, ha messo sotto i nostri occhi, non a parole ma coi fatti, la vera immagine della sua onnipotenza.
 
La piena spiegazione della prima parte del credo l’avremo nella seconda parte. Il significato dell’onnipotenza del "Signore Dio dell’universo" diventerà chiaro, in modo inatteso e sconvolgente, solo presso la mangiatoia di Betlemme, la bottega del carpentiere di Nazaret e la croce del Calvario.
 
Di fronte a fatti simili, i più profondi pensatori sono completamente sconcertati. Ciò che avevano detto di Dio con le loro parolone astratte forse non è falso, forse è anche vero, ma è tanto marginale! Conosciamo in che cosa consiste la sovranità di Dio solamente quando l’Onnipotente si spinge all’estremo limite dell’impotenza: bimbo che vagisce in una stalla, piagato che agonizza su un patibolo infame.
 
"Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati" (1Gv 4,8-10).
 
Di fronte a simili spettacoli, di fronte a un Dio "servo" e "vittima" siamo costretti a rivedere tutte le nostre nozioni di potenza, di sovranità, di signoria. Dio ci rivela che la potenza di Dio è il contrario della potenza dell’uomo. Gesù ci rivela che la potenza suprema è quella che può completamente rinunciare alla potenza: la sua forza non deriva dalla violenza, ma dall’amore. Ora, nella logica dell’amore, il più piccolo è sempre il più grande, il più debole il più forte, il servo è il signore... . E, inversamente!

 
2.3 Dio è amore. La sua onnipotenza è l’onnipotenza dell’amore

 
Dio è amore: è questa la sua vera realtà, la sua natura. Volendolo presentare diversamente, ci troveremo di fronte un dio falso, un dio che non esiste. "Quando usciamo dalla sfera propria dell’amore e, lavorando di fantasia, introduciamo in Dio elementi estranei all’amore, quando pensiamo che l’amore è qualcosa in Dio o un aspetto di Dio e non Dio stesso, allora ci costruiamo un idolo" (F. Varillon).
 
Certo, Dio è potente, sapiente, santo, giusto e tutto quello che si può dire di buono e di bello. Ma, "potente, sapiente, santo, ecc." sono aggettivi e non devono diventare sostantivi. Dio è amore. Il nostro Dio-Amore è potente, sapiente, santo, giusto... all’infinito. È amore e nient’altro! È puro amore.
 
L’amore non è un attributo di Dio: è la sua sostanza, e tutti gli attributi di Dio sono gli attributi dell’amore.
 
Rifiutiamo coraggiosamente il Dio onnipotente per accogliere il Padre onnipotente, l’Amore onnipotente!
 
L’amore del mio Dio è antecedente, gratuito, senza ragione, incondizionato. Non ha altro motivo che il desiderio di Dio d’amarmi, come è di ogni amore paterno o materno.
 
I genitori, degni di questo nome, sognano il loro figlio prima ancora di averne visto il volto. Non lo conoscono ancora, non sanno nemmeno se sarà maschio o femmina; sanno solo che sarà "il loro bambino". Amore meraviglioso che non aspetta di conoscere l’altro per amarlo, che si offre all’altro qualunque esso sia: maschio, femmina, sano, malato; amore che non verrà meno per tutta la vita e per nessuna ragione. È di questo tipo, e infinitamente migliore l’amore del Padre celeste: non presuppone nulla da parte mia. Per darsi non aspetta che io lo ami; per amarmi, non aspetta che io sia amabile. Il suo amore non è una risposta al mio: è antecedente, primo, sovranamente indipendente, incondizionato.
 
Anche l’amore dei fidanzati e degli sposi non è gratuito né incondizionato, perché è reciprocità. La gratuità totale ed eterna dell’amore è l’onnipotenza del solo amore paterno di Dio.
 
"Dio è povertà assoluta: in lui non c’è traccia di avere, di possesso. Eternamente il Padre dice al Figlio: tu sei tutto per me. Il Figlio risponde al Padre: tu sei tutto per me. È Dio il più povero di tutti gli esseri. O, se preferite, dite pure che Dio è il più ricco, ma ricco in amore, non in avere. Ora, essere ricco in amore ed essere povero è esattamente la stessa cosa perché l’amore è dono, non possesso. Colui che ama di più è anche il più povero. L’infinitamente amante, Dio, è infinitamente povero. Dio è un infinito di povertà e di umiltà" (F. Varillon).
 
Il Figlio di Dio è disceso tra noi come un mendicante assetato (Gv 4,7; 19,28). E alla fine dei tempi ci chiederà se lo avremo riconosciuto e amato povero nei poveri (Mt 25,31-46) e da questo dipenderà la nostra salvezza o la nostra condanna.
 
La povertà materiale di Betlemme, di Nazaret, del Calvario è solo il segno di una povertà molto più profonda. Povertà immensa di Dio, infinita, assoluta, senza la quale non possiamo affermare che Dio è amore. Come siamo lontani da certe immagini di Dio che noi ci siamo fatto per ignoranza e superficialità, e che gli atei giustamente rifiutano! Il credente serio è colui che afferma la povertà assoluta di Dio perché Dio è amore.
 
Il Padre onnipotente è dunque un mendicante di amore; la sua "onnipotenza" d’amare lo rende "completamente" mendicante e "completamente" povero: egli è la povertà in tutta la sua potenza.
 
Se fosse un "Dio onnipotente", piegherebbe l’uomo al suo volere, usando, se necessario, la forza. Questo Dio onnipotente non esiste. L’amore di Dio Padre è abbastanza potente da rispettare la libertà dei suoi figli infinitamente più di quanto potremmo aspettarci dal migliore dei padri terreni. "Un uomo aveva due figli..." (Lc 15,11-32).
 
Un vero padre dà fiducia, a proprio rischio e pericolo. Gioca tutto su suo figlio: beni, nome, reputazione, lavoro... . Che farà il figlio di tutto questo? Può sperperare, sciupare, infangare tutto. È il prezzo della libertà. Non si può costruire un uomo a minor prezzo. Si dice e si ripete: "Se Dio è buono perché tutto questo male nel mondo? Perché non ferma la mano del malvagio?". La ragione è questa: Dio è un "Padre onnipotente". Per questo può e deve lasciar partire il figlio prodigo per rispettare le scelte libere (Lc 15). Può pazientare di fronte alla zizzania che ha invaso il suo campo (Mt 13).
 
Solo per amore ha suscitato davanti a sé degli esseri completamente liberi. Sartre fa dire a un suo personaggio: "Se l’uomo è libero, Dio non esiste". Infatti, il Dio onnipotente non esiste, perché l’uomo è libero. Ma l’uomo è libero proprio perché il Padre esiste ed è "onnipotente" nel suo amore.
 
Lui solo pagherà i danni, prenderà su di sé le malefatte dei suoi figli turbolenti e risanerà, di tasca sua, i loro bilanci fallimentari (Lc 10,30-37; Mt 18,23-35).
 
Al figlio vagabondo, che torna al limite dello sfascio, riserva onori e celebrazioni degne di un eroe ed è "fuori di sé dalla gioia" quando ritrova l’uomo che s’era perduto (Lc 15).
 
Il nostro Dio è il più dipendente di tutti gli esseri. Contrariamente a quanto sembra, amore e volontà d’indipendenza sono incompatibili. Quindi chi ama di più è più dipendente. L’infinitamente amante Dio è infinitamente dipendente. Non dipendente nell’essere, ma nell’amore. Un bambino dipende dalla mamma nel suo esistere, ma sul piano dell’amore è la mamma che dipende dal suo bambino: quando lui sta bene è tutta la sua gioia; quando sta male o muore è tutto il suo dolore.
 
Dio è il più dipendente di tutti gli esseri: dipendenza nell’amore, non nell’essere.
 
Il vero Dio è infinitamente ricco, ma ricco d’amore; infinitamente libero, ma libero d’amare.


CREATORE DEL CIELO E DELLA TERRA

 3.1 In principio Dio creò

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Essere padre significa essere creatore. Le prime pagine della Bibbia tracciano una scena grandiosa dell’origine del mondo e dell’uomo. Ma sollevano parecchie difficoltà. Ne ricordiamo una per tutte: come conciliare l’insegnamento della Genesi con le teorie e le scoperte della scienza?
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Scienza e fede sono chiamate a vivere da buone vicine, purché ciascuna rimanga a casa sua. La scienza, infatti, cerca il "come" delle cose e del mondo, mentre la fede ci dice il "perché" della vita, dell’uomo, della creazione. Scienza e fede sono sorelle, figlie di Dio e fatte per amarsi e aiutarsi, a condizione di rimanere ciascuna nel proprio campo. "La ricerca metodica d’ogni disciplina, se procede in maniera veramente scientifica e secondo le norme morali, non sarà mai in reale contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà della fede hanno origine dal medesimo Dio" (Conc. Vat. II, Gs 36). Leggiamo dunque questi capitoli della Genesi con scienza e fede.
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Quelle della Genesi sono pagine di altissima poesia, racconti di una rara vivacità e intelligenza, risposte rivelate e infallibili per la fede. Tutto quanto è contenuto nei primi undici capitoli della Genesi è un affresco eccezionale, una grandiosa teologia in immagini, ma non è una storia delle origini.
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Il primo capitolo della Genesi è stato scritto verso il 450 a.C.. Questa datazione può sconcertare se pensiamo che l’origine dell’uomo risale forse a più di otto milioni di anni fa (?), mentre quella del nostro pianeta si colloca probabilmente attorno a dieci miliardi di anni fa. Siamo davanti a una riflessione, guidata dallo Spirito Santo, sull’uomo e sul mondo, fatta all’epoca dell’autore ispirato, ossia verso il 450 prima di Cristo.
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Questa riflessione mette in luce delle verità essenziali e si serve di leggende del tempo per esprimersi in maniera immaginifica e comprensibile agli uomini dell’epoca.
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Possiamo cogliere chiaramente quanto l’autore sa e ciò che non sa. Innanzitutto l’autore sa che il mondo non è Dio: rifiuto di ogni panteismo (dottrina di quanti pretendono che Dio si confonda con l’universo); conseguentemente sa che Dio non è il mondo: rifiuto di ogni politeismo (che divinizza le forze della natura). Osserviamo che le sole tre religioni che affermano la creazione del mondo da parte di Dio -il giudaismo, il cristianesimo e l’islamismo (tutte e tre beneficiano delle confidenze divine della Bibbia)- sono anche le sole che hanno evitato di confondere Dio col mondo.
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L’autore ispirato sa anche che questo mondo, nella sua stessa esistenza, dipende dalla libera volontà di una Persona che lo supera. È questo il significato che egli dà al termine "creato".
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Sa che il mondo non è stato creato in seguito a una lotta fra Dio e le potenze malvagie. La creazione è completamente opera di Dio per l’uomo. L’alleanza prima e originale è questa: la creazione è tutta di Dio e tutta per l’uomo.
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Lo scrittore sacro sa che gli astri non sono dei. Essi assolvono una funzione nell’equilibrio del mondo e a servizio dell’uomo; sono come orologi per segnare il tempo, fonti di luce per l’uomo.
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Sa che l’acqua, il cielo, la terra non sono divinità, ma elementi di bellezza o oggetti d’un lavoro umano. In questo modo il "sacro" che tendenzialmente mettiamo dappertutto, viene estromesso da ogni cosa; rimangono di fronte solo due interlocutori: l’uomo per il quale tutto è stato fatto, e Dio, che tutto ha fatto. In questo universo creato, il "sacro" non potrà più essere cercato al di fuori dell’uomo.
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Il nostro redattore, infatti, sa che tutta la creazione mantiene un rapporto ininterrotto di dipendenza con Dio, ma tale rapporto è privilegiato per l’uomo, il solo fatto a immagine e somiglianza di Dio. Sa che l’uomo e l’universo dipendono da Dio pur rimanendo liberi di fronte a Dio, perché Dio è amore.
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Il mondo è fatto per noi uomini perché ci possiamo sentire a casa nostra, perché ci sentiamo amministratori del mondo con pieni poteri. Non siamo posti sulla terra per esservi schiavi di Dio, ma come amministratori, in rappresentanza del creatore del mondo. Nessun uomo può essere schiavo d’un altro, perché nessuno è schiavo nemmeno di Dio.
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Ma anche l’universo in un certo senso è libero. Esso è autonomo. Ha le sue leggi, e Dio non interviene arbitrariamente. Tutto questo dimostra la serietà di Dio, la serietà della creazione. Infine l’autore ispirato sa che uomo e donna sono stati creati insieme e uguali; che tutti e due, senza nessuna differenza, sono "immagine di Dio".
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D’altra parte, l’autore ispirato ignora molte cose; e noi non dobbiamo fargliele dire!
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Non sa nulla dell’età del mondo.
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Ignora pure dove sono apparsi i primi uomini: il giardino dell’Eden (o paradiso terrestre) è un luogo immaginario. Non cercatelo sulle carte geografiche!
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Non sa come sia fatta la terra. Ma toccava proprio a lui e allo Spirito Santo darci lezioni di geografia e di geologia? Infine, non conosce l’ordine dell’apparizione delle cose: pone la luce prima degli astri, le bestie perfezionate prima delle piante.
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Ma quanto egli ci rivela in nome di Dio non è per nulla infirmato dalle cose che ignora.
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"La nostra affermazione: credo in Dio creatore, non ci dà affatto luci speciali sul passato del mondo, sulle immense stagioni in cui il mondo si è costruito nella notte dei tempi, né sulla lenta apparizione di questa specie curiosa che i biologi chiamano "homo sapiens". Queste luci le aspettiamo dalla scienza. Ma abbiamo un’illuminazione sul nostro presente e sul nostro futuro. Chi siamo e perché esistiamo? A causa dell’amore infinito" (Charles Paliard).
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La Bibbia ci interroga come credenti e non come scienziati; non si rivolge all’uomo scientifico, ma all’uomo vivente. Pone la questione del "senso" o del "non senso" della vita, dell’uomo e del mondo, e ne dà una risposta: "Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona" (Gen 1,31).
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Dio non è "l’eterno celibe dei mondi" (Chateaubriand), solitario, chiuso in se stesso, nella sua ricchezza infinita, come un avaro sul proprio tesoro. Dio è amore, generosità inarginabile, sorgente traboccante: "È in te la sorgente della vita" (Sal 36,10). Dio è libero di creare o meno, perché è completamente autosufficiente. La sua paternità è infinitamente appagata nel Figlio eterno, nel quale si ritrova perfettamente, con il quale scambia un amore che li rende veramente Uno. Ma suscita per sé altri figli e altre figlie e il loro meraviglioso luogo d’abitazione, l’universo.
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Il mondo creato porta l’impronta del creatore, tutte le creature assomigliano a Dio, ma solo Dio è Dio.
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La creazione è in costante e incessante sviluppo ed espansione: è un mondo "in avanti". Gli studiosi, dopo numerose scoperte, si trovano d’accordo nell’avanzare l’ipotesi dell’evoluzione generalizzata, come una legge fondamentale di tutta la natura. La materia sarebbe in possesso di una energia che la spingerebbe continuamente verso il perfezionamento. Su questa linea di progresso, dopo miliardi d’anni, dovrebbe essere vista l’apparizione della vita animale e poi della vita umana.
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Nulla di tutto questo è contrario alla fede. Dio è la fonte di questa evoluzione. Dio crea un mondo che si trasforma. L’universo e l’umanità sono in evoluzione sempre più complessa e veloce verso il loro pieno compimento.
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Questa concezione "in avanti" provoca i cristiani. Essi devono avere il futuro nel cuore, la capacità di adattarsi alla realtà dinamica della vita e di umanizzare la corsa verso il futuro.
 
"Creatore del cielo e della terra" significa anche creatore degli esseri che in essi vi abitano: angeli, demoni e uomini.
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L’esistenza di angeli e di demoni è continuamente affermata dalla Bibbia. Nel Nuovo Testamento la rivelazione sugli angeli e sui demoni si chiarisce e prende contorni più precisi attorno a Cristo Gesù.
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Col nome di satana (l’avversario) o di diavolo (il calunniatore, colui che crea divisione) la Bibbia indica un essere personale, invisibile, la cui azione e influenza si manifestano sia nell’attività di altri esseri (demoni), sia nel tentare l’uomo. Egli è il serpente della Genesi, creatura di Dio come ogni altra (Gen 3,1), angelo libero, ribelle, decaduto e invidioso della felicità dell’uomo (Sap 2,24) e nemico del disegno di Dio. È il drago (serpente) dell’Apocalisse, scacciato dal cielo con i suoi angeli, i demoni, e gettato sulla terra. Era "il principe di questo mondo", ma Gesù è venuto per gettarlo fuori (Gv 12,31). Il racconto della grande lotta di Gesù inizia così: "Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore allora gli si avvicinò..." (Mt 4,1-11).
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Satana s’avvicina agli uomini sempre come tentatore. L’uomo per natura è debole ed è meno astuto del diavolo. Da sempre il peccato è innanzitutto l’atto della potenza delle tenebre, del serpente antico, del padre della menzogna, del maligno. Se vogliamo dare un nome a questa potenza, il più adeguato è forse quello di tentatore.
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Nella lotta contro l’avversario Gesù conseguì completa vittoria. Ma tale lotta continua nel combattimento spirituale del cristiano. La tattica del tentatore è sempre la stessa; egli è il serpente, lo strisciante, il mentitore. Ma, forte in Cristo, il cristiano umile, prudente, che prega, non ha nulla da temere: "Non capisco tutte queste paure che ci fanno gridare: il demonio, il demonio!, quando invece possiamo dire: Dio, Dio!" (s. Teresa d’Avila).
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Il vangelo di Matteo conclude così il racconto della tentazione di Gesù nel deserto: "Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano".
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Il nome "angelo" non esprime la natura, ma la funzione: significa "messaggero". Nella Bibbia, pertanto, deve essere inteso nel significato di "messaggero" a tutti i livelli e sotto forme diverse, dall’"angelo di Dio", ossia Dio stesso che si manifesta, fino ad un inviato terrestre, un uomo-messaggero, un apostolo, un missionario.
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Può anche trattarsi di un "messaggio" interiore che la Bibbia esprime con l’espressione "un angelo apparve in sogno", per dire: una forte ispirazione di Dio, un’evidente luce soprannaturale. Stiamo dunque attenti a non vedere dovunque angeli o demoni. Ma dobbiamo anche stare attenti a non volerli vedere in nessuna parte. È contro la fede cristiana mettere in dubbio l’esistenza degli angeli o quella dei demoni, le loro qualità di creature personali, spirituali (incorporali), immortali, dotate di conoscenza e di libertà.
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Gli angeli, per un dono gratuito di Dio, sono stati elevati alla vita soprannaturale. Essi ricevono da Cristo, che è il loro capo, la partecipazione alla vita stessa di Dio: è la "grazia" che li fa figli di Dio. Siamo dunque fratelli e sorelle degli angeli, figli e figlie di Dio come loro. Ma siamo a loro inferiori in quanto siamo anche materia, "spiriti incarnati".
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L’uomo è così la cerniera fra l’universo visibile e quello invisibile, fra il mondo degli spiriti e il mondo dei corpi. In noi avviene l’unità perfetta di questi due mondi. Per questo il Figlio eterno di Dio, volendo tutto riunire per tutto divinizzare (Ef 1,10; Col 1,16-20), si è fatto uomo, non angelo. Per la sua natura umana resta "inferiore agli angeli" (Eb 2,7), per la sua natura divina è infinitamente superiore agli angeli (Eb 1,4-13).
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Qual è la funzione degli angeli? Gesù si riferisce agli angeli come a esseri reali e attivi che vegliano sugli uomini e vedono la faccia del Padre che è nei cieli (Mt 18,10).
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Sono al servizio di Dio (Mt 4,11; 26,53; Lc 22,43) e a servizio dell’uomo, "spiriti incaricati di un ministero, inviati a servire coloro che erediteranno la salvezza" (Eb 1,14).

 3.2 L’uomo a sua immagine

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"Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò" (Gen 1,27). L’uomo non è autosufficiente. L’esperienza quotidiana dell’uomo è duplice: quella esaltante di dominatore del cosmo e quella deprimente dei suoi limiti e della sua impotenza.
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Paradossalmente, mentre l’uomo, con la scienza e la tecnica s’impadronisce sempre più dell’universo, le più moderne ideologie mettono alla berlina i "sogni" d’un "uomo-Dio" (cristianesimo), d’un "uomo nuovo" (marxismo), d’un "superuomo" (Nietzsche e nazismo), d’un "uomo libero" (esistenzialismo), per proclamare la "morte dell’uomo" in nome della scienza (strutturalismo). "Pensiamo che il fine ultimo delle scienze umane non sia quello di costituire l’uomo, ma di dissolverlo" (Claude Levi-Strauss, dell’Accademia di Francia). "Oggi possiamo pensare soltanto entro il vuoto dell’uomo scomparso... A tutti coloro che vogliono ancora parlare dell’uomo, del suo regno e della sua liberazione, a tutti coloro che pongono ancora domande su ciò che l’uomo è nella sua essenza... non possiamo che contrapporre un riso filosofico" (Michel Foucault).
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Senza giungere fino a questa disperazione, dobbiamo ammettere i molteplici limiti dell’uomo, tra i quali spicca la sua "nascita per la morte" e la sua vita, come attimo sfuggente, trascinata irreparabilmente dal tempo. Che cosa fare allora? Abbandonarsi all’angoscia? Distrarsi a tutti i costi e in tutti i modi?
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L’Islam ha questa bellissima immagine: il primo grido del neonato e l’ultimo sospiro dell’agonizzante compongono e proclamano il nome divino: Allah.
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La Bibbia ci offre una rivelazione ottimistica dell’uomo: creatura ancorata in alto a Qualcuno, all’Esistente, a Colui che era prima del "principio".
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L’uomo è quindi segnato radicalmente da una dipendenza nell’essere che lo radica in un’esistenza solida, per nulla mortificante, piena di senso, che gli apre orizzonti senza limiti: l’esistenza stessa di Dio.
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L’uomo tratto dalla terra (Adamo significa "fatto di terra", "terreno") appartiene alla terra; la mangia, la beve, la respira, se ne veste, se ne profuma, finché tornerà alla terra dalla quale è stato tratto. Ma non dimentichiamo che Dio lo creò a sua immagine. Ciò significa prima di tutto che l’uomo è fatto per essere creatore e dominatore della creazione. Tutto è stato creato per l’uomo.
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Questa rivelazione apre spaziosi orizzonti e contesta duramente la nostra civiltà. "Il dramma della nostra epoca -scrive Albert Camus- è che il lavoro, controllato interamente dalla produzione, ha smesso di essere creativo. La società industriale aprirà le strade d’una civiltà, solo ridando al lavoratore la dignità del creatore, ossia applicando il suo interesse e la sua riflessione tanto al lavoro stesso che al prodotto. La civiltà ormai necessaria non potrà separare, nelle classi come nell’individuo, il lavoratore dal creatore. Ogni creazione nega in se stessa il mondo del padrone e dello schiavo. L’orribile società di tiranni e di schiavi dove siamo dei sopravvissuti troverà la sua morte e la sua trasfigurazione solo sul piano della creazione".
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"Quando la creazione viene a mancare in qualsiasi settore dell’attività umana, allora gli uomini degenerano disumanizzandosi. Per questo il lavoro che non offre nessuna possibilità di creazione non è umano. Se tutto è imposto, se l’operaio non ha alcun potere di decisione o di controllo, se non può prendere nessuna iniziativa, il lavoro è alienante; sperimentiamo tutto questo ogni giorno" (Pierre Ganne).
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Immagine di Dio creatore, sono io stesso creatore a sua immagine? Cerco di avere un pensiero personale? Una parola che non sia pappagallesca? Una scelta politica responsabile? La mia creatività sonnecchia o è operante? Ho dato corso a tutte le mie possibilità creative per me e per gli altri?
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Chi non ha iniziativa e senso di responsabilità è un uomo sciupato perché è un’immagine di Dio sciupata!
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Immagine del suo creatore, l’uomo è stato chiamato ad essere lui stesso creatore, collaboratore con Dio, lavoratore per la trasformazione dell’universo. Ma questa espressione rivelata: "creato a immagine di Dio", svela un mistero ancora più profondo: tra l’uomo e Dio esiste un rapporto di parentela, un rapporto filiale. L’uomo è chiamato a superare la sua natura non per essere "simile a Dio" (Gen 3,5), ma per diventare veramente Dio in una partecipazione di vita e d’amore.
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L’uomo ha dunque la vocazione di figlio di Dio, ma non a scapito della sua umanità, bensì trasfigurandola, facendola esistere pienamente nella vita divina che gli è offerta. Questo mistero sarà svelato pienamente solo da Gesù. Ma fin dalla creazione, l’uomo appare come amico e figlio di Dio, capace di rapporti d’affetto. Viene così delineata una lunga storia per l’umanità e per ciascun uomo, una storia d’amore e di libertà: "Man mano che ci inoltriamo nella riflessione sulla Bibbia e particolarmente sul vangelo scopriamo la verità che costituisce il nostro credo: colui che è creatore è anche amore. Solo l’amore è creatore; solamente l’amore può far sì che un uomo diventi "qualcuno"; solo l’amore può liberare le forze assopite della libertà e dell’intelligenza... Solo l’amore può far esistere la cosa più preziosa, questa ragione per la quale si darebbe ogni cosa, ciò che nemmeno la morte può ridurre in polvere; solo l’amore può far nascere la gioia, che nessuno può strappare" (Charles Paliard).
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Nascono qui varie obiezioni piuttosto consistenti. Come essere liberi "dipendendo" da un creatore? Come vivere una storia con Dio se Dio è immutabile? Come esercitare la propria creatività in collaborazione con lui, se egli è eterno, ossia fisso, invariato, immobile da sempre e per sempre?
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Una simile difficoltà è d’una logica astratta implacabile. La troviamo alla radice di molti ateismi.
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Se il creatore è l’onnipotenza immutabile del destino che incombe sull’umanità, non c’è più posto per la libertà creatrice dell’uomo. Non si deve più parlare di storia; tutto si riduce a un’opera teatrale, già da tempo scritta, già portata sulla scena, dove si sa già quando bisogna ridere o piangere.
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Una concezione così aberrante dipende dall’idea di Dio che ci è offerta dai filosofi. Il Dio dei filosofi non ha storia: è eternamente fuori del tempo, al di sopra della mischia umana; è "immutabile"; passato, presente e futuro del mondo stanno insieme sotto i suoi occhi, tutto il susseguirsi della storia umana è davanti a lui da sempre come un libro spalancato: un panorama che si muove sotto uno sguardo che non si muove.
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Stando così le cose, come si fa a non dire che la storia umana è truccata? Se il creatore non vi è coinvolto, se, dalla "tribuna d’onore" vede non solo la gara che si svolge al di fuori di lui, ma anche, con un solo sguardo eterno, tutto lo svolgimento di essa, con le sue vicissitudini, dal calcio d’inizio fino al fischio finale, perché giocare? Il risultato è scontato! Non muterà nulla. Come può il giocatore essere libero, capace d’iniziativa, di creatività?
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Fortunatamente la Bibbia e Gesù ci rivelano un Dio completamente diverso. Un Dio Padre che vive con l’uomo suo figlio, dialoga con lui, lavora con lui e prende l’iniziativa di una grande avventura comune dove non mancheranno rotture e riprese e Dio si impegna nello svolgimento di una storia comune con tutta l’umanità.
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Di tale storia possiede dall’eternità il sicuro disegno; ma non è un disegno sull’uomo in un universo prefabbricato. Assolutamente no. Il disegno di Dio è l’uomo stesso, nel mondo dell’uomo, dove dispiega la propria attività creatrice.
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Dipendenza e libertà sono termini contraddittori solo nei libri di cattiva filosofia, non nella vita. Due innamorati sono completamente dipendenti l’uno dall’altro, eppure sono totalmente liberi! Dio, proprio perché ama, prosegue il suo disegno immutabile con uomini liberi, che vuole collaboratori in tutto. Il risultato della partita non è già fissato in anticipo, né per l’uomo né per Dio, perché tutti e due giocano insieme senza barare. I risultati dell’uomo sono i risultati di Dio e viceversa. Sono legati nella buona e nella cattiva sorte, in cammino verso il futuro. Tutto il contrario della fissità nell’eterno e nell’immutabile! Noi non crediamo nel Dio immutabile ed eterno, ma nel Padre immutabile nella sua decisione d’amare l’uomo, nel Padre eterno nella sua ostinazione d’amore per salvarlo, ossia per farlo suo figlio.
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Creando l’uomo a sua immagine, Dio fa l’uomo come un padre fa il figlio, col fine di suscitare davanti a sé un altro se stesso, libero e responsabile, capace di amarlo e quindi anche di rifiutarlo.
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Questo Padre, questo Dio, ha voluto avere una sola risorsa: "sedurre" l’uomo con la testimonianza del suo "folle amore". Questa testimonianza scoppierà all’interno del dramma del nostro peccato, con l’incarnazione di Dio, la mangiatoia di Betlemme, la croce del Calvario. Ecco le follie di Dio per attirare a sé la nostra indomabile libertà!
 E con questo ci introduciamo nella seconda parte del nostro credo, che ci porterà ancora più lontano nel mistero dell’uomo creato in Gesù Cristo.


E IN GESÙ CRISTO

 
La nostra professione di fede si sviluppa in tre parti: credo in Dio Padre, credo in Gesù Cristo, credo nello Spirito Santo. La seconda parte è la più importante. La rivelazione di Gesù Cristo è la rivelazione del Padre e dello Spirito Santo. Il vero Dio, l’unico vero Dio esistente, è Trinità (unico Dio in tre persone).
 
La mente umana e i pensatori più geniali non potevano arrivare a "sospettare" e a comprendere questa verità. Noi la conosciamo solo perché ce l’ha rivelata Cristo. Per conoscere il vero Dio è necessaria la rivelazione, è necessario Cristo.
 
Gesù non è un’idea astratta, nata a tavolino: è un uomo. Un uomo che non ha mai cessato di affascinare l’umanità: l’uomo più amato e più combattuto.

 4.1 Chi è Gesù

 Gesù significa "Dio salva". Giuseppe chiamando "Gesù" il bambino che Maria aveva partorito a Betlemme, aveva obbedito a un ordine divino: "Lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati" (Mt 1,21).
Gli apostoli e i suoi contemporanei videro un uomo.
Questa è la carta di identità tramandataci dai vangeli:
- nato a Betlemme, in Palestina, al tempo dell’imperatore Augusto e del re Erode (Lc 2,1-7; Mt 2,1);
 •
- professione: carpentiere (Mc 6,3);
 •
- residenza: Nazaret in Galilea (Gv 1,45).
 •
Videro un uomo:
 •
- che aveva degli amici (Gv 11,3)
 •
- che amava i bambini (Lc 9,36; 10,16)
 •
- che sentiva compassione (Lc 7,11-15; Mc 6,30-44)
 •
- che piangeva (Lc 19,41-44; Gv 11,1-44)
 •
- che andava in collera (Mc 3,1-6; 10,13-16; Gv 2,13-17)
 •
- che pregava (Mc 1,35) e andava regolarmente ogni sabato alla sinagoga (Lc 4,14)
 •
- che soffriva fisicamente e moralmente (Mt 26,38)
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- che moriva (Mt 27,50)
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Videro un uomo, un Gesù, che non sapeva tutto, non aveva una scienza universale non necessaria per la sua missione (Mt 24,36).
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Videro un uomo, non una marionetta teleguidata da Dio, un uomo libero.
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Videro un uomo in tutto simile a noi, fuorché nel peccato (Rm 8,3; Fil 2,7; Eb 2,17).
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Ma Gesù era anche un uomo sorprendente. La gente del suo tempo rimane stupita, spaventata, scandalizzata, perplessa. "Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità. Comanda persino agli spiriti immondi e gli obbediscono" (Mc 1,27). "Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?" (Mc 2,7). "Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?" (Mc 4,41).
A Cesarea di Filippo Gesù interroga i suoi discepoli: "Chi dice la gente che io sia?" Ed essi gli risposero: "Giovanni il Battista, altri poi Elia e altri uno dei profeti!". Ma egli replicò: "E voi chi dite che io sia?". Pietro gli rispose: "Tu sei il Cristo". (Mc 8,27-29). L’uomo Gesù è il Cristo.

 4.2 Che cosa vuol dire Cristo?

 Gesù è il Cristo al punto che quasi i due titoli vanno uniti: Gesù Cristo. Tuttavia "Cristo" non è un nome come "Gesù". "Cristo" è la traduzione greca dell’aggettivo aramaico "messia": essi hanno esattamente lo stesso significato.
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L’evangelista Giovanni ci riporta in aramaico l’esclamazione di Andrea rivolta al fratello Simon Pietro: "Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo) e lo condusse da Gesù" (Gv 1, 41). Messia o Cristo è "colui che ha ricevuto l’unzione d’olio".
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Nell’Antico Testamento, l’olio sacro dell’unzione versato sulla testa di qualcuno rappresenta il rito con cui Dio consacra un profeta, un sommo sacerdote, o un re.
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È il segno sensibile e efficace della comunicazione dello Spirito Santo a colui al quale è stata affidata una missione a servizio di Dio e del suo popolo (Es 30,22-33; 1Sam 16,1-13).
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Tra i tanti messia che c’erano stati nella storia di Israele si stava aspettando l’arrivo de "il Messia", "il discendente di Davide", "il re d’Israele". Gesù il Messia, povero, perseguitato, perdente, morto in croce, non se l’aspettava nessuno, non piaceva a nessuno.
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Anche i suoi amici più intimi, gli apostoli, si erano stretti attorno a lui lasciando il lavoro e la famiglia (Mc 1,16-20) sperando di "far carriera" (Mc 10,35-40). Si controllavano e si litigavano per avere gli "avanzamenti", i primi posti (Mc 10,35-40). Il popolo di Israele attendeva un re guerriero, un liberatore politico che desse lustro alla Gerusalemme terrestre. Dopo la morte di Gesù alcuni stavano tornando a casa loro e alle loro faccende, delusi e tristi: "Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele" (Lc 24,21). E proprio nell’imminenza della sua ascensione al cielo Gesù si sente ancora rivolgere la domanda: "Signore, è questo il tempo in cui ricostruirai il regno d’Israele?" (At 1,6).
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Gesù ha dovuto lottare tutta la vita contro satana, contro i giudei e gli stessi discepoli che satana metteva come intralcio sul cammino del Cristo per deviarlo dalla sua missione e dalla volontà del Padre (Mt 16,21-25). Gesù spiega ai suoi intimi il segreto della sua messianicità: "Devo soffrire molto e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno" (cfr. Mt 16,21). Per Gesù, "messia" ha significato concretamente: unto, consacrato dallo Spirito santo e battezzato nel proprio sangue per dare la vita agli altri.


SUO UNICO FIGLIO

 
Solo poco per volta i discepoli scoprirono in Gesù di Nazaret una presenza speciale di Dio. Solo dopo la sua risurrezione e la pentecoste, ebbero la certezza che Gesù era Dio in persona.
 
Che itinerario seguirono gli apostoli per arrivare a questa scoperta? I miracoli.
 
I Giudei del tempo di Gesù avevano la testa piena di miracoli. Miracoli grandiosi come le piaghe d’Egitto, il mare diviso dal bastone di Mosè, la manna piovuta dal cielo, ecc. Prima di Gesù i profeti avevano risuscitato morti, guarito lebbrosi, moltiplicato pane e olio, ecc.
 
I miracoli di Gesù non erano più sensazionali di quelli dei suoi predecessori. Anzi, paragonato a Mosè, Gesù ne usciva abbastanza ridimensionato: un messia debuttante e dilettante.
 
Nonostante che Mosè avesse fatto miracoli più clamorosi di quelli di Cristo, nessuno mai lo aveva creduto Dio. Ciò che attribuisce ai miracoli di Gesù un peso inaudito, una differenza sostanziale, una caratteristica unica rispetto ai miracoli di Mosè e dei profeti, è questo: i miracoli di Gesù sono miracoli personali.
 
Gesù aveva il potere personale di fare i miracoli.
 
Nell’Antico Testamento i profeti annunziano che Dio farà i miracoli: essi sono solo strumenti. Quando Elia risuscita un ragazzo (1Re 17,17-24) invoca il Signore e il Signore lo ascolta. Quando Gesù risuscita un ragazzo (Lc 7,11-17) fa un semplice gesto, dice una sola parola senza invocare Dio: " Gesù accostatosi toccò la bara..." Poi disse: "Giovinetto, dico a te, alzati!" Il morto si levò a sedere e incominciò a parlare" (Lc 7,14-15).
 
Il miracolo (questo e altri) è importante non tanto per il beneficio che produce al fortunato destinatario, ma perché è "un segno", una prova che Dio è d’accordo e mette la sua firma su quanto Gesù fa e dice. Questo sarà l’argomento dimostrativo e convincente che gli apostoli tireranno fuori fin dal primo discorso. "Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazaret -uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete - dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere" (At 2,22-24).
 
I fatti del Vangelo rivelano che Gesù è uomo e Dio. Il Padre ha mandato il Figlio suo a farsi uomo perché in quest’uomo noi conoscessimo e amassimo Dio.
 
Gesù è il Figlio unigenito del Padre (Cf. Gv 1,14-18; 5,16-18) venuto a rivelare il vero volto di Dio. "Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato" (Gv 1,18). E Gesù ci ha presentato Dio come "pluralità" di persone. Ha presentato il Padre, se stesso e lo Spirito santo. "Rispose Gesù: "Se uno mi ama osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama non osserva le mie parole: la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Queste cose vi ho detto quando ero ancora con voi. Ma il Consolatore, lo Spirito santo, che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto" (Gv 14,23-26).
 
I vangeli non hanno mai fatto la somma dei Tre, non hanno parlato di Trinità, non usano nemmeno il termine "persona". La realtà di Dio non può essere racchiusa in parole o formule: ci sta stretta o non ci sta affatto.
 
John Robinson scrive nel suo libro "Questo non posso crederlo": "Una volta, alla fine di una mia conferenza, qualcuno mi pose questa domanda: "Come insegnerebbe a un bambino la dottrina della Trinità?". Di rado mi ero sentito rivolgere un quesito così facile: "Non gliela insegnerei affatto!".
 
John Robinson ha ragione! La Trinità è la famiglia di Dio. Ora le realtà della famiglia non si racchiudono in fredde lezioni, come se fossero matematica o geometria, ma si vivono, e possono essere progressivamente comprese attraverso l’esperienza vissuta.
 
Il neonato non sa di avere una famiglia e non sa cosa sia una famiglia. Fin dalle prime settimane di vita si sente circondato da tanto amore, intuisce attorno a sé una tenerezza che risponde a tutte le sue necessità. Coglie questa tenerezza come "una", indistinta, ma onnipotente e buona, attenta e premurosa. In seguito scoprirà che questa presenza è "molteplice" senza cessare di essere "una": voce acuta o grave, viso vellutato o volto barbuto, mani delicate o forti... sono in molti a vivere intorno a lui e per lui lo stesso amore. Poi distinguerà papà e mamma: intuirà che egli è il frutto del loro comune amore; apprenderà che essi vivono l’uno per l’altro e tutti e due per lui, per i fratelli e le sorelle. Tutte queste persone care si imprimeranno chiaramente nella sua mente e nel suo cuore. E per capire tutto questo non ha avuto bisogno di un trattato scientifico e neppure di un corso accelerato.
 
Certo, non chiedete a questo bambino di definire filosoficamente la famiglia, la paternità, la maternità, ecc. Ma che importa? La famiglia non è un soggetto da recitare, ma è un luogo d’amore. Il bambino ha appreso che cosa è la famiglia, non attraverso delle formule, ma vedendola vivere e amare, sentendosi in essa amato, cercando di amare come essa e in essa.
 
È questo il modo con cui Dio ci ha rivelato il mistero della sua famiglia, della sua vita trinitaria.
 
In nessuna pagina della Bibbia troveremo una formula del tipo "un solo Dio in tre persone". Ma fin dalle prime righe della Genesi risulta la presenza di un grande amore attorno a una culla. Vi troviamo il nome del Dio unico in forma plurale -Elohim- e questo Dio creatore parla a se stesso al plurale: "Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza" (Gen 1,26) come quando più persone si consultano fra loro e arrivano a una decisione comune. Infine facendo l’uomo "a sua immagine" lo crea coppia: "maschio e femmina; li creò" (Gen 1,27) col potere di generare: li creò trinità. Una trinità (padre, madre, figlio) "immagine e somiglianza di Dio".
 
Nel Nuovo Testamento, l’angelo annuncia a Maria: "Lo Spirito santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio" (Lc 1,55). Sono tre: l’Altissimo, lo Spirito santo e il Figlio di Dio.
 
Dopo il battesimo di Gesù il cielo si aprì e scese su di lui lo Spirito santo in apparenza corporea, come di colomba, e vi fu una voce dal cielo: "Tu sei il mio Figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto" (Lc 5,21-22). La voce del Padre sul Figlio prediletto e la discesa dello Spirito.
 
Gesù inizia il suo primo discorso pubblico con queste parole della Scrittura: "Lo Spirito del Signore è sopra di me" (Lc 4,18). "Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi" (Lc 4,21). Lo Spirito del Signore (del Padre) sul Figlio. Ancora la Trinità. Ecc.
 
Venuto ad abitare in mezzo a noi (cfr. Gv 1,14), il Verbo (ossia la Parola: colui mediante il quale il Padre ci parla), Gesù, non si comporta da professore, non impartisce lezioni sulla Trinità, non fa abbozzi geometrici (ricordate il triangolo con scritto "Dio"?!), non usa termini filosofici (natura, persona, essenza, sostanza). Vive semplicemente, vive com’è. Vive da Figlio unigenito del Padre. Ad ogni pagina del vangelo, Gesù ha nella mente e nel cuore la volontà del Padre, prega il Padre (lo chiama Abbà, papà), vive esclusivamente per il Padre.
 
Gesù Figlio unico di Dio parla di suo Padre come di una persona nettamente distinta da lui (cfr. Gv 17,10). Tra lui e il Padre vi è distinzione netta e tuttavia unità perfetta: "Io e il Padre siamo una cosa sola" (Gv 10,30); "Chi ha visto me, ha visto il Padre" (Gv 14,9).
 
Verso la fine della sua vita Gesù annuncia una terza persona divina: "il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome..." (Gv 14,26). Uno Spirito perfettamente distinto dal Padre e dal Figlio.
 
La rivelazione, dunque, ci presenta delle persone distinte: Padre, Figlio e Spirito Santo, ognuna è persona distinta, e nello stesso tempo ci dice la loro unità in un solo Dio.
 
Dalla risurrezione del Figlio e dall’effusione dello Spirito è nata la Chiesa alla quale Gesù ha dato un ordine: "Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo..." (Mt 28,19). La vita della Chiesa è completamente penetrata da questo mistero trinitario (segno di croce, orazioni, sacramenti, ecc.). Essa non si preoccupa tanto di darci spiegazioni e ragioni, quanto piuttosto di intrecciare rapporti di familiarità con le persone divine, di farci vivere con esse e in esse, di metterci in comunione col Padre, col Figlio e con lo Spirito nella preghiera e nell’amore.
 
Le porte di questo mistero non si aprono col grimaldello dell’intelligenza o con la perspicacia delle formule, ma si spalancano solo all’amore. "Se uno mi ama... il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui... e lo Spirito santo che il Padre manderà in mio nome, v’insegnerà ogni cosa" (Gv 14, 23-26). "Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai voluto nella tua bontà" (Mt 11,25-26).
 
Arrivato a questo punto, qualcuno potrebbe esclamare: "Finalmente ho capito il mistero di Dio-Trinità!". No, assolutamente. Ci siamo solo avvicinati al mistero.
 
Quando si tratta di Dio (ma anche delle persone umane!) possiamo solamente supporre il loro mistero, intravederlo, intuirlo senza poterlo veramente afferrare e esprimere con nozioni chiare e formule esatte. Prendiamo la vita, la nostra, quella di un animale o di una pianta: ebbene nessuno scienziato sa dirci che cosa sia esattamente. Eppure la vita è in noi, attorno a noi, vi siamo immersi. Nonostante questo, non esiste nessuna possibilità di definirla in termini perfetti. Abbiamo una certa intuizione di che cosa sia la vita, ma il suo mistero essenziale ci sfugge. Non conosciamo neppure noi stessi.
 
Eppure noi continuiamo a vivere, tentando di balbettare su quanto viviamo pur sapendo che la vita e le persone non si mettono in formule. A maggior ragione quando si tratta della vita di Dio. Abbiamo a disposizione solo parole inadeguate, "ingannatrici", e tentiamo di costruirci delle immagini con specchi deformanti. La strada più adeguata è ancora e sempre quella dell’amore. "Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio; chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore" (1 Gv 4,7-8).
 
Dio si rivela come qualcuno e non come un complesso di forze vaghe e stemperate nella natura. Ha un nome proprio. È una persona.
 
Persona (in greco: pros-opon = sguardo verso; in latino: persona = risuonare attraverso, parola verso) indica un essere che dialoga e ha dei rapporti.
 
Se l’Assoluto, Dio, è persona ancora prima della creazione, non può essere un singolo, altrimenti non sarebbe "sguardo verso" qualcuno, "parola verso" qualcuno, "rapporto con qualcuno". Da sempre, quindi il nostro Dio "unico" è anche "pluralità".
 
Dio si è rivelato come Amore (1Gv 4,8). E si può essere amore solo nei confronti di un’altra persona. Una persona che fosse sola a esistere non potrebbe amare, oppure amerebbe se stessa e questo sarebbe puro egoismo, il contrario esatto dell’amore, l’opposto di Dio, perché Dio è amore.
 
Dio è essenzialmente "pluralità di persone" ed, essendo personale, è fondamentalmente rapporto e dialogo.
 
Questo termine "dialogo" ci aiuta a comprendere cosa significa: "In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio... E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi" (Gv 1,1-14).
 
Il termine greco usato da Giovanni è "logos". La sua traduzione latina "verbum" sfortunatamente è stata trascritta e non tradotta in italiano. Verbo significa Parola. Dio è Logos, Parola, perché è amore, rapporto; non parla eternamente da solo, ma è dialogo. Gesù è la  Parola vivente del Padre, Parola eterna, da duemila anni Parola incarnata.
 
All’inizio del IV secolo, verso l’anno 320, viveva ad Alessandria d’Egitto un prete austero, pio e colto di nome Ario. A grandi linee il suo insegnamento era questo: "Dio è uno, eterno non generato. Gli altri esseri sono creature, il Logos per primo. Come tutte le altre creature, il Logos è stato tratto dal nulla e non dalla sostanza divina; ci fu un tempo in cui non esisteva. È stato creato mediante un atto libero di Dio. Creatura di Dio, il Logos è a sua volta, creatore degli altri esseri; questo rapporto giustifica il titolo di Dio che gli è dato impropriamente. Dio lo ha adottato come figlio ma da questa filiazione adottiva non discende alcuna partecipazione reale alla divinità, alcuna somiglianza con Dio. Dio non può avere uno che gli assomigli. Lo Spirito Santo è la prima creatura del Logos e quindi ancora meno Dio del Logos stesso...".
 
Era la totale distruzione di Cristo e del cristianesimo!
 
L’imperatore Costantino convocò il primo concilio "ecumenico" (300 vescovi quasi tutti orientali) a Nicea in Bitinia. Era l’anno 325.
 
I vescovi condannarono la dottrina di Ario e si permisero di aggiungere qualcosa al simbolo degli apostoli. Abbiamo così il simbolo di Nicea completato successivamente a Costantinopoli (a. 381), il simbolo che recitiamo durante la messa.
 
Cerchiamo di comprenderlo.
 
Unigenito Figlio di Dio. Gesù Cristo è il solo generato, figlio per generazione e non per adozione. Questo termine "unigenito" è nel vangelo di Giovanni: "Noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre" (Gv 1,14). "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16).
 
Nato dal Padre. L’espressione "nato da" non si trova nella Scrittura, ma vi si trova una espressione ancora più forte: "Figlio unigenito che è nel seno del Padre" (Gv 1,18).
 
Prima di tutti i secoli. Per noi generazione e nascita richiamano necessariamente l’idea dell’inizio, la preesistenza del padre e della madre rispetto al figlio ecc. perché ogni generazione umana avviene nel tempo. Non così per la nascita del Figlio di Dio. È una nascita prima dell’inizio, una nascita eterna. Il Padre e il Figlio sono coeterni (come di due persone nate nello stesso anno si dice coetanei).
 
Dio da Dio. Il Padre è Dio. Quindi il Figlio è Dio. La divinità del Figlio è la stessa del Padre. "Tutto quello che il Padre possiede è mio" (Gv 16,15).
 
Luce da luce. "Dio è luce" (1Gv 1,5), è "il Padre della luce" (Gc 1,17). Gesù dice di se stesso: "Io sono la luce" (Gv 8,12). Non "una" luce, ma "la" luce.
 
Dio vero da Dio vero. Non Dio nominalmente o per adozione o per partecipazione, ma Dio vero, senza lasciare scappatoie o possibilità di equivoci.
 
Generato non creato. Ario diceva: Dio Padre è "ingenerato", ma il Figlio è "fatto", è una "creatura". Il concilio risponde: il Verbo non è "fatto" o "creato"; è "generato" dal Padre.
 
Della stessa sostanza del Padre. Omoousios è un termine tecnico della filosofia. Qui, in questo preciso contesto, significa che il Padre e il Figlio hanno in comune una sola e identica divinità.
 
Per mezzo di lui tutte le cose sono state create. Tutta la creazione è stata fatta per mezzo di questo Figlio che non era stato "fatto". "Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto, di tutto ciò che esiste" (Gv 1,3). "Egli (il Figlio) è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili... Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui" (Col 1,15-17).
 
Tutto questo ha aggiunto il concilio di Nicea (a. 325) perché non fosse più possibile nessun equivoco e perché si sapesse, in conformità al vangelo, che Gesù è Dio. Il primo concilio di Costantinopoli (a. 381) inserirà nel simbolo le affermazioni riguardanti lo Spirito Santo per togliere ogni ombra di dubbio sulla divinità della terza persona della Trinità.
 
S. Paolo parla della conoscenza di Dio nell’"oggi" di questa vita in contrapposizione a quella che si avrà nell’"allora" della visione del cielo. "Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia" (1Cor 13,12).
 
In attesa della visione "a faccia a faccia", accontentiamoci di guardare nello specchio.
 
Gli specchi in cui possiamo vedere la santissima Trinità "in maniera confusa" sono diversi. Il triangolo, coi suoi tre angoli comprendenti ciascuno una superficie unica e comune soddisferà l’arida intelligenza del matematico. Il filosofo preferirà entrare in se stesso e analizzarsi seguendo un ragionamento che potrebbe essere formulato così: "Io penso... E penso un pensiero che viene da me, senza essere me stesso, un pensiero che esprimo in una "parola", in un logos che procede da me, come figlio della mia intelligenza... Sperimento in me una terza forza: amo, e il mio amore scaturisce da me come un "alito" di tenerezza che diffonde veramente attorno a me la vita...". Un solo essere, tre potenze realmente distinte: un’analogia che sottolinea adeguatamente l’unità della natura in Dio, ma a scapito della trinità delle persone perché questo io del filosofo è una persona sola.
 
Guardiamo piuttosto lo specchio dell’amore, perché che s. Giovanni, in un passo ispirato delle Scritture, ci dà di Dio questa "definizione": "Dio è amore" (1Gv 4, 8.16). Questo specchio, meno intellettuale dei precedenti è più eloquente, riflette meglio l’esperienza umana e ha un forte appoggio nel libro della Genesi. Dio disse: "Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza..." Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: "Siate fecondi e moltiplicatevi..." Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona (Gen 1,26-31). Dio ci ha insegnato che è una famiglia, Padre, Figlio e Spirito. La famiglia umana, quindi, ci mette sulla strada buona: essa e "l’uomo a immagine e somiglianza di Dio", è lo specchio vivente più terso di Dio-Trinità.
 
Certamente, immagine imperfetta! Ma è pur vero che nel profondo della nostra esperienza familiare troviamo una pallida, ma sconvolgente idea, come un invito e una nostalgia di ciò che Dio vive nel cuore della Trinità.
 
"Molti cristiani di oggi, senza saperlo, coltivano un certo platonismo. Essi bruciano il loro granello d’incenso al mito del Dio greco, individuo perfetto, immobile e splendente, mentre il mistero rivelato da Gesù è quello di una famiglia di tre persone talmente unite dall’amore da essere UN Dio" (F. Varillon).
 
Troppi battezzati, nella loro fede e nella loro preghiera, pensano d’aver solo rapporti col Dio unico che pregano alla maniera degli ebrei o dei musulmani, ignorando praticamente le tre Persone. La rivelazione e la liturgia ci invitano a incontrare personalmente il Padre, il Figlio e lo Spirito santo.
 
"Il mistero della Trinità è il mistero della famiglia (o comunità) divina. Un Dio unipersonale (che fosse una persona sola) non sarebbe un Dio vivente. La Trinità non è una "variazione" sul basso continuo della divinità, qualunque cosa ne dica il filosofo. Non è, per il cristiano, una "sovrastruttura". Per questo dobbiamo guardarci dall’insegnare prima di tutto Dio e successivamente la Trinità. Ma prima la Trinità, Dio, in tre persone. Il buon Dio è il Dio amore, il Dio Trinità" (F. Varillon).


NOSTRO SIGNORE

La signoria è un titolo d’onore, d’autorità, di potere. Il Signore con la maiuscola è Dio in quanto sovrano di tutta la creazione.
Oggi si usa il titolo di "signore" per il primo venuto. Anche nel vangelo alcuni che si avvicinavano a Cristo lo chiamavano "signore" in questo senso generico: la samaritana al pozzo (Gv 4,11.15), il paralitico di Betsaida (Gv 5,7), Maria Maddalena fuori dal sepolcro vuoto (Gv 20,15). Ma per i discepoli di Gesù, questo titolo dato al loro maestro esprime molto più della comune buona creanza. Gesù è "il Signore", a un titolo assolutamente unico.
Dopo la risurrezione, sul mare di Tiberiade, i discepoli rientrano dalla pesca a mani vuote. Dalla riva uno sconosciuto chiede loro: «Figlioli non avete nulla da mangiare?" Gli risposero: "No". Allora disse loro: "Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete". La gettarono e non potevano più tirarla su per la gran quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: "È il Signore!"... E nessuno dei discepoli osava domandargli: "Chi sei?", poiché sapevano bene che era il Signore» (Gv 21,5-12).
Dopo la Pentecoste lo Spirito santo proietta una piena luce sugli avvenimenti pasquali. Il primo discorso di Pietro alla folla il giorno di Pentecoste, conclude così: "Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!" (At 2,36). Paolo scrive: "Per questo infatti Cristo è morto e ritornato in vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi" (Rm 14,9). Questo titolo esprime il culmine del mistero di Gesù Cristo Figlio di Dio.
Due o tre secoli prima di Cristo fu tradotta in greco la Bibbia ebraica. Il nome di Dio, fu tradotto con il termine Kyrios, Signore. Da quell’epoca conseguentemente nella Bibbia Kyrios significa Dio. "Gesù è il Signore" significa dunque "Gesù è "Dio": è Dio come il Padre.
Gesù di Nazaret, figlio di Maria, falegname di professione, è Signore Dio. Siamo qui nel cuore del mistero di Gesù Cristo, al centro della fede cristiana essenziale. "Se confesserai con la bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio l’ha risuscitato dai morti, sarai salvo" (Rm 10,9).
Gesù Cristo "è il Signore di tutti" (At 10,36). "Nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore" (Fil 2,10-11).
La fede viene professata più nella vita quotidiana che con la recita domenicale del Credo. Potrebbe accadere, senza saperlo, che Gesù Cristo sia "nostro Signore" in mezzo a tanti altri signori.
Gesù non può essere uno dei nostri signori e nemmeno il primo fra gli altri: è il solo Signore. Il Credo di Nicea proclama: "Credo in un solo Signore Gesù Cristo".
Nei primi secoli della Chiesa, l’imperatore rivendicava per sé il titolo di dio. Accanto a lui brulicava una fauna di signori piccoli e grandi, buoni e cattivi. Tutto questo è cambiato solo in superficie. Abbiamo i divi dello stadio e dello spettacolo, i tiranni della burocrazia e della moda, i magnati della politica e della stampa, ecc.
Ci dedichiamo all’adorazione del denaro e di chi ne possiede, del potere e di coloro che lo detengono, del prestigio, della bellezza, ecc.
Il cristiano può verificare l’autenticità della sua fede in Gesù Cristo come unico assoluto, misurando l’allergia che sente verso ogni tipo di piccoli assoluti che pullulano nella società umana.
Il cristiano rende volentieri a Cesare quello che è di Cesare (cfr. Mt 22,21) e a ciascuno l’onore che merita, ma è sovranamente libero: ascolta e segue solo Cristo (cfr. Gv 10,3-4).
La Chiesa non deve rendere culto agli dèi di questo mondo né esigere essa stessa un simile riconoscimento. Il suo Signore ha rifiutato di essere re (Gv 6,15), ha condannato lo spirito di dominio che tentava di attecchire fra i suoi (cfr. Lc 22,24-27).
Dà loro un potere: quello di servire; una divisa per il comando e per la liturgia: il grembiule (Gv 13,4).
Da quel momento, al seguito di Cristo, ci sono solo fratelli e sorelle in servizio reciproco. Solo Gesù è Signore. Per il cristiano non esiste altra signoria che quella di Gesù. Egli è "il solo Signore". È il solo Signore della creazione (per mezzo di Lui tutte le cose sono state create) e della storia degli uomini, l’inizio e la fine (Ap 22,13), il primo e l’ultimo (Ap 1,17), l’alfa e l’omega (Ap 1,8), ossia il Tutto.


                             
FU CONCEPITO DI SPIRITO SANTO, NACQUE DA MARIA VERGINE

Leggiamo alcuni testi della Scrittura che narrano il fatto.
«L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: "Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te". A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. L’angelo le disse: "Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine". Allora Maria disse all’angelo: "Come è possibile? Non conosco uomo". Le rispose l’angelo: "Lo Spirito santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: nulla è impossibile a Dio". Allora Maria disse: "Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto" e l’angelo partì da lei» (Lc 1,26-38).
«Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua Madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito santo. Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: "Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati". Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi» (Mt 1,18-23).
"Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio nato da donna" (Gal 4,4).
Sant’Ignazio d’Antiochia (+107) scrive: "Siate dunque sordi quando qualcuno vi faccia discorsi che non vi parlano di Gesù Cristo, disceso dalla stirpe di Davide, figlio di Maria, che realmente nacque, mangiò e bevve, fu realmente perseguitato sotto Ponzio Pilato, fu realmente crocifisso e morì... che realmente risuscitò dai morti; e lo risuscitò il Padre suo, che risusciterà similmente anche noi che crediamo in lui, per virtù di Gesù Cristo, senza il quale noi non possediamo la vera vita" (Lettera ai Tralliani).
"La vera fede è credere e proclamare che nostro Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio è Dio e uomo. È Dio, eternamente generato dalla sostanza del Padre; è uomo, nato nel tempo dalla sostanza di sua madre. Perfettamente Dio; perfettamente uomo; composto da un’anima razionale e da un corpo umano. Uguale al Padre secondo la divinità; meno grande del Padre secondo l’umanità. Anche se è Dio e uomo non ci sono tuttavia due Cristo ma uno solo. Uno solo non perché la divinità sia stata trasformata in carne, ma perché l’umanità è stata presa da Dio. Uno solo assolutamente, non per confusione dell’umano e del divino, ma per l’unità della persona. Infatti, come l’anima razionale e il corpo sono un solo uomo, così Dio e l’uomo sono un solo Cristo" (Dal Simbolo detto "di sant’Atanasio" +373).
Gesù vero Dio e vero uomo ha Dio solo per Padre. Lo Spirito Santo non è un padre supplente, ma la potenza creatrice del Padre, "la potenza dell’Altissimo" (Lc 1,55) che porta la creazione al momento massimo della perfezione: l’uomo Cristo Gesù.
Un saggio indù ha detto che l’Europa ha capito soltanto metà del messaggio di Cristo. Essa ha capito che Cristo e Dio sono un tutt’uno; deve però ancora scoprire l’altra metà, che cioè Cristo e l’uomo sono un tutt’uno, che l’uomo, ogni uomo, anche il più piccolo degli uomini è suo (di Cristo).
L’incarnazione scandalizza i giudei: essa abbassa l’Altissimo, macchia il Santo con l’impurità della nascita, del sangue, della morte.
L’incarnazione è stoltezza per i greci (pensatori e filosofi): essa pone l’Eterno nel tempo, lo spirito nella materia, l’uno nel molteplice, l’universale nel particolare. Essa è esattamente il cammino inverso dell’idealismo greco che cerca la salvezza nella disincarnazione.
Ma soprattutto l’incarnazione sconvolge e supera noi cristiani di ieri e di oggi. Tutte le grandi eresie indicano la nostra resistenza a tale vertiginoso ideale, a questo avvicinamento sconvolgente e inquietante: l’unione reale dell’uomo con Dio.
Anche oggi ci sono eresie sommerse ma pericolose come mine vaganti inesplose. Il cristiano mal istruito crede che Gesù si è manifestato in un corpo senz’anima umana e considera la parola "carne" esclusivamente in senso materiale, come la bistecca, mentre significa "uomo". "Il Verbo si è fatto carne" (Gv 1,14) significa "si è fatto uomo".
Il cristiano troppo dotto rappresenta Cristo come qualcuno che ha il ciclomotore, ma fa finta di pedalare su una comune bicicletta per incoraggiare i ciclisti (noi uomini). Finge di affaticarsi sui pedali, ogni tanto sospira per dare l’impressione che è stanco, si asciuga il sudore perché gli altri sudano. Ma con tutto ciò va sul ciclomotore. In altre parole, Cristo ha risolto i suoi problemi di uomo con il motore della sua divinità e non pigiando faticosamente sui pedali della sua umanità.
Qualcuno ci disse che Gesù non pregava per necessità, ma per darci il buon esempio. Faceva finta! Anche Bossuet ci lascia di stucco quando commenta la frase del vangelo "Gesù cresceva in sapienza, statura e grazia davanti a Dio e agli uomini" Lc 2,52). Dice: "Gesù possedeva tutta la perfezione fin dal principio, ma la lascia trasparire progressivamente per rassomigliare a un vero bambino" (Bossuet, Elévations sur les Mystères). Ha fatto finta di crescere, ha fatto finta di essere un bambino!
Qualcuno crede che Gesù è stato uomo, ma non lo è più e che in eterno è soltanto Dio.
Altri allontanano Cristo dal mondo, lo confinano in cielo, lo incensano, lo esiliano totalmente e rendono la carità fraterna, al massimo, un comando, una occasione di merito e non quale essa è: un atto di amore a Cristo che si identifica con l’uomo: "Ogni volta che avete fatto tutte queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me" (Mt 25,40).
Occorre essere Dio per riuscire ad amare gli uomini. Occorre che l’uomo sia Dio per avere un motivo sufficiente per amare l’altro, perché ci sia una ragione proporzionata ai sacrifici inauditi che un simile amore esige e alle delusioni che esso procura. L’unico mezzo per amare gli uomini è credere che Dio è uomo.
L’incarnazione non si conclude con l’ascensione di Cristo. Gesù è rimasto uomo, un uomo assiso alla destra del Padre onnipotente.
Il fariseo è colui che tenta di fare delle buone relazioni con Dio una scusa alle cattive relazioni con il prossimo (cfr. Lc 18,9-14), che escogita il modo per non pagare il sussidio alimentare ai genitori votando i suoi beni a Dio (cf. Mt 15,5). I conti in regola con Dio gli danno la possibilità di sentirsi la coscienza tranquilla nei confronti degli altri.
Cristo ha rovesciato simili ragionamenti. Egli ci ha detto: hai gli stessi doveri verso Dio e verso il prossimo: tu non sei più vicino a Dio di quanto tu non lo sia al prossimo; l’unica prova decisiva che tu ami Dio è che tu ami il fratello: «Se uno dicesse: "Io amo Dio" e odiasse suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio ami anche suo fratello» (1Gv 4,20-21).
L’eresia più pericolosa consiste nel disincarnare Cristo, nel liberare Dio dal corpo, nel rimetterlo in cielo. Se Dio se ne stesse in cielo io potrei odiare tranquillamente il mio prossimo o, peggio ancora, potrei ignorarlo, starmene a casa mia tranquillo, con la mia povera religione della domenica. Potrei onorare Dio, e, durante la settimana, servirmi del fratello anziché servire il fratello.
La religione dell’incarnazione è scomoda e mette continuamente in discussione la nostra quiete: Dio è sempre presente. "Io, Cristo, ho fame, ho sete, sono forestiero, nudo, malato, carcerato" (cfr. Mt 25,31-46).
Tutte le strutture della società sono anticristiane: capitalismo, proletariato, privilegi di classe, di denaro, di razza e di colore, di educazione e di cultura; ovunque privilegi e barriere e quindi oppressione. E Cristo non è tra i privilegiati!
Cristo è in terra e si tratta di una presenza terribile. Gli avversari dell’incarnazione vogliono una religione comoda: per questo esiliano Cristo, separano Dio dall’uomo. Ognuno sistema le sue faccende come vuole e tutto è più facile quando Dio non interviene a complicare le cose.
Alla fine del mondo risuonerà la stessa parola che risuonò in principio: "Caino, dov’è tuo fratello Abele?" (cfr. Gen 4,9).


                                                 
PATÌ SOTTO PONZIO PILATO

Dopo la concezione di Gesù e la sua nascita, il Credo passa direttamente alla sua morte, saltando a piè pari la sua vita. I nomi di Maria e di Pilato sono citati uno dopo l’altro in una prossimità che colpisce. Maria e Pilato, una dissonanza ardita. Mediante loro due il Figlio di Dio si è veramente incorporato alla nostra umanità: alla nostra razza umana mediante la sua madre umana, Maria; alla nostra storia umana, civile e politica, mediante Ponzio Pilato.
Maria ... Pilato: l’amore che fa vivere Gesù, l’egoismo che lo fa morire; la madre di Dio, l’assassino di Dio; l’umanità, la migliore e la peggiore: noi tutti.
Patì. Cristo non ha cercato la croce, non ha torturato se stesso. Anzi di fronte alla passione ha sudato sangue, ha gridato la sua paura, ha supplicato di essere liberato dalla morte (cfr. Mt 26,36-42; Lc 22,39-44). "Nei giorni della sua vita terrena egli (Cristo) offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono" (Eb 5,7-9)
Patì. È forse questa la risposta di Dio al mistero della sofferenza degli uomini? Ogni uomo cozza duramente contro la sofferenza, non se ne sa dare una ragione e non ne vede l’utilità per nessuno: né per sé, né per gli altri, né tanto meno per Dio. Allora perché? Per chi?
Trecento anni prima di Cristo, Epicuro faceva questo ragionamento: "O Dio vuol sopprimere il male e non può, e allora è impotente... Oppure non vuole e non può, e allora è un niente... Oppure può sopprimere il male e non vuole, e allora è maligno... O, infine, può e vuole, e allora dov’è questo Dio e da dove viene il male?...".
I filosofi cristiani, pagani e atei hanno tentato delle spiegazioni: è il loro mestiere. Cristo, il giusto, non tenta nessuna giustificazione della sofferenza e della morte. Le combatte per distruggerle definitivamente. La ribellione degli uomini è anche la sua. Guarisce i malati, risuscita i morti, lotta per gli umiliati, perdona ai peccatori... A tutti insegna: "Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano. A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica... Siate misericordiosi... Non giudicate... Non condannate... Perdonate" (Lc 6,27-37). E di tutto quanto ha insegnato ne dà l’esempio levando alto il suo grido di "vendetta" contro i suoi carnefici: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno" (Lc 23,34).
Anche i discepoli di Cristo cercarono spiegazioni davanti al cieco nato.
Gesù non dà spiegazioni: lo guarisce (cfr. Gv 9,1-7).
Di fronte a ogni sofferenza si possono prendere vari atteggiamenti, reagire in svariate maniere, ma tutto può ridursi a due comportamenti fondamentali: fare o filosofare. Cristo ha scelto il primo e lo ha comandato anche a noi. Sui fatti verterà il suo giudizio nei confronti del mondo e di noi stessi alla fine dei tempi: sulla nostra preoccupazione effettiva di porre fine alle sofferenze degli affamati, degli assetati, di chi non ha vestiti, degli stranieri, degli ammalati, dei prigionieri (cfr. Mt 25,31-46).
Per i filosofi il male è un problema; per Cristo e per i cristiani è un nemico, uno scandalo, una provocazione; ed esige una protesta, una mobilitazione, una rivolta. Non si spiega il male, lo si combatte!
Dobbiamo renderci conto che Dio vede la sofferenza in modo diverso dal nostro. Dio ha una concezione molto positiva sulla sofferenza come mezzo, al punto che egli accoglie per se stesso il dolore come strada necessaria. Ai discepoli di Emmaus Gesù spiega: "Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?" (Lc 24,26). E agli apostoli: "In verità, in verità, vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto" (Gv 12,24).
Secondo il modo di vedere di Dio e nell’esperienza di Gesù, la sofferenza della passione sfocia nella gloria della risurrezione, la morte di uno è la vita di tutti.
L’uomo non sa assolutamente liberarsi dal suo egoismo di grano sterile e pensa di trovare la vita conservandola per sé. Gesù insegna: "Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita, per causa mia, la troverà" (Mt 10,39).
La sofferenza dell’uomo e del mondo è un radicale mutamento, una spinta urgente verso una vita diversa e migliore. Per questo è lacerazione, sbriciolamento, trauma, morte. È una legge generale. Morte della crisalide che diventa farfalla, annientamento dell’uovo che diventa pulcino, marcire del chicco che diventa spiga e messe, sgomberare il terreno dalla baracca per costruirvi un grattacielo. Dice il prefazio della liturgia eucaristica funebre "Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta ma trasformata: e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata una abitazione eterna nel cielo".
Il mistero pasquale è il passaggio (Pasqua significa passaggio!) da una vita all’altra. La vita terrena deve essere necessariamente snidata dalla sua tranquillità, sottoposta a un passaggio, segnato dal sangue, verso la morte, ultima tappa prima della vita eterna. Il cristiano sa che questi dolori sono le doglie del parto per la nascita di un mondo nuovo: "Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi... Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo" (Rm 8, 18-23).
La madre vuole i dolori del parto; li vorrebbe anche il figlio se sapesse che rappresentano la condizione perché da embrione diventi un uomo: "La donna, quando partorisce, è afflitta perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione, per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia. In quel giorno non mi domanderete più nulla" (Gv 16,21-23).
L’uomo si supera solo attraverso la sofferenza.
Vivere è amare; amare è morire. Amare significa uscire da se stessi, dimenticarsi, sacrificarsi, cancellarsi, negarsi, per gli altri. La morte rappresenta l’annullamento completo di sé; se è accettata, è il vertice dell’amore. La morte per gli altri è la sola testimonianza irrefutabile d’un amore senza egoismo. Dio muore per amore verso gli uomini; l’uomo è chiamato a morire per amore verso Dio e verso i fratelli. È questo l’amore infinito perché "nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici" (Gv 15,13).
Sfortunatamente il nostro amore non è infinito, non è libero dall’egoismo, non è puro. La sofferenza è il solo mezzo per la nostra purificazione, il mezzo per ridurre in noi stessi l’egoismo e generarvi l’amore. La sofferenza non è qualcosa di accidentale o di incidentale, ma è la via. Per il credente, la sofferenza non è assolutamente un’assenza di Dio, ma una presenza d’amore. L’autore della "Imitazione di Cristo" dice: "Senza dolore non si vive nell’amore".
"Come nessuno ama Dio senza soffrire, così nessuno vede Dio senza morire... Nessuna volontà è buona se non è uscita da sé per lasciare tutto lo spazio all’invasione di quella di Dio" (Maurice Blondel).
Gesù non ha subìto una morte qualsiasi per motivi indefiniti. Fu arrestato, giudicato, condannato e ucciso per motivi precisi e da poteri ben determinati.
Il conflitto fra Gesù e i capi del popolo scoppia violento fin dai primi incontri (Mc 1,6-12; 3,1-6) e diventerà sempre più insanabile, fino all’uccisione di Gesù. Il complotto degli uomini contro Gesù prende tutto il vangelo e sfocia in due processi lungamente particolareggiati. Gesù crocifisso non è altro che Gesù condannato dai poteri civili e religiosi.
Gesù perde il processo religioso davanti alla sua chiesa: è un falso profeta. Il Dio che egli rivela, il Dio che egli è o pretende di essere, non è il Dio della sua chiesa ebraica.
Gesù guarda l’uomo, i suoi interessi, la sua salvezza. Per i suoi avversari invece sono importanti la legge, la tradizione, la burocrazia, le scartoffie... I suoi avversari non si preoccupano affatto dei peccatori, dei poveri, ma solo della legge e della sua applicazione. Gesù proclama: "Il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!" (Mc 2,27). L’uomo religioso di allora faceva di Dio il nemico dell’uomo. La rivolta di Gesù contro i padroni della legge (scribi, farisei, sadducei, classi dominanti) è una rivolta in favore dei piccoli, oppressi da un giogo insopportabile. Le sette lamentazioni rivolte agli scribi e ai farisei: "Guai a voi, scribi e farisei ipocriti" (Mt 23,13-32) con le motivazioni addotte, sono un ottimo quadro riassuntivo della situazione di allora.
Gesù perde il processo civile davanti all’autorità politica. Pilato dichiara ben tre volte: "Io non trovo in lui nessuna colpa" (Gv 18,38; 19,4.6), ma "ebbe paura crescente" (Gv 19,8) "e lo consegnò loro perché fosse crocifisso" (Gv 19,16).
Dio è condannato dai poteri. Condannato perché vuole essere libero e liberatore. Il peccato del mondo è soprattutto il potere che schiaccia il debole e condanna l’innocente; il potere pubblico o privato che domina invece di servire, che sfrutta invece di amare.
Fu chiesto a Raoul Follereau: "Quando scriveste a Krusciov e a Eisenhower, che, se avessero rinunciato a un apparecchio da bombardamento ciascuno, si sarebbero potuti curare tutti i lebbrosi del mondo, avete avuto risposta? Rispose: No... Nella potenza e nella ricchezza esiste un confine oltre il quale non si è più né americani né russi, né cristiani né atei: si è potenti, si è ricchi; si è disumanizzati".
Pilato, davanti a Gesù, si richiama alla sua autorità: "Non sai che io ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?" (Gv 19,10). Ma Gesù rifiuta l’assoluto di questa autorità, ne subisce le inique conseguenze senza ribellarsi e s’incammina verso il Calvario portando la sua croce.
L’insegnamento di Cristo è inequivocabile: "Io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuole chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due..." (Mt 5,39-41).
Secondo Cristo il rimedio contro le forme di oppressione e contro l’arroganza dei poteri politici e religiosi non è la lotta, ma la debolezza e l’umiltà dell’amore, la debolezza e l’umiltà di Dio. Il solo rimedio è uccidere l’odio, prima di tutto nel proprio cuore.
Su questa linea è l’insegnamento della Chiesa: "Oggi gli uomini aspirano a liberarsi dal bisogno e dalla dipendenza. Ma questa liberazione s’inizia con la libertà interiore che essi devono ricuperare dinanzi ai loro beni e ai loro poteri; essi mai vi riusciranno se non tramite un amore che trascenda l’uomo e, di conseguenza, tramite una effettiva disponibilità al servizio. Altrimenti, e lo si vede fin troppo, anche le più rivoluzionarie ideologie otterranno soltanto un cambio di padroni: insediati a loro volta al potere, i nuovi padroni si circondano di privilegi, limitano le libertà e permettono che si instaurino altre forme di ingiustizia" (Paolo VI, Octogesima adveniens, 45; 14 maggio 1971).
«La Chiesa reputa certamente importante e urgente edificare strutture più umane, più giuste, più rispettose dei diritti della persona, meno oppressive e meno coercitive, ma è cosciente che le migliori strutture, i sistemi meglio idealizzati diventano presto inumani se le inclinazioni inumane del cuore dell’uomo non sono risanate, se non c’è una conversione del cuore e della mente di coloro che vivono in queste strutture o le dominano. La  Chiesa non può accettare la violenza, soprattutto la forza delle armi, né la morte di chicchessia, come cammino di liberazione, perché sa che la violenza chiama sempre la violenza e genera irresistibilmente nuove forme di oppressione e di schiavitù più pesanti di quelle dalle quali essa pretendeva liberare. Lo dicemmo chiaramente nel nostro viaggio in Colombia: "Vi esortiamo a non porre la vostra fiducia nella violenza né nella rivoluzione; tale atteggiamento è contrario allo spirito cristiano e può anche ritardare, e non favorire, l’elevazione sociale alla quale legittimamente aspirate" (Discorso ai campesinos, 23-8-1968); "Dobbiamo dire e riaffermare che la violenza non è né cristiana né evangelica e che i mutamenti bruschi o violenti delle strutture sarebbero fallaci, inefficaci in se stessi e certamente non conformi alla dignità del popolo"» (Discorso per la "Giornata dello sviluppo" Bogotà 23-8-1968) (Paolo VI; Evangelii nuntiandi, 36-37; 8 dicembre 1975).
"La liberazione che proclama e prepara l’evangelizzazione è quella che Cristo ha annunziato e donato all’uomo mediante il suo sacrificio" (Paolo VI; EN. 38).
La passione e morte di Cristo ci vengono presentate dalla Bibbia come sacrificio, riscatto, redenzione, salvezza, remissione dei peccati ecc.
Il prezzo di questo riscatto e di questo acquisto è stato il sangue di Cristo. "Abbiamo la redenzione mediante il suo sangue" (Ef 1,7). "Cristo Gesù ha dato se stesso in riscatto per tutti" (1Tm 2,6). "Tu (Cristo) sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione" (Ap 5,9). "Siete stati comprati a caro prezzo" (1Cor 6,20; 7,23).
Nella messa ci viene ripresentato il corpo di Cristo "offerto in sacrificio" per noi e il sangue di Cristo "versato per tutti in remissione dei peccati".
Il sangue (= la vita) di Cristo non è stato versato come riscatto al diavolo: non si tratta di una transazione commerciale per l’acquisto dell’umanità, per il passaggio di proprietà da satana a Dio. Non è neppure un prezzo pagato a Dio per "soddisfare" la sua giustizia o la sua collera. Dio non è un giustiziere sanguinario, un usuraio rapace a cui non interessa la provenienza del riscatto, che sacrifica l’innocente (Cristo) al posto del colpevole (l’umanità) purché qualcuno paghi e gli restituisca il suo avere. Se "Dio è amore" (1Gv 4,8) dobbiamo eliminare dal mistero cristiano tutto quanto non è amore, tutti i residui delle idee pagane che stentano a morire in noi.
«Quasi tutte le religioni gravitano attorno al problema dell’espiazione; esse si radicano nella coscienza che l’uomo ha della propria colpevolezza davanti a Dio e rappresentano un tentativo di placare il senso di colpa, per vincere il peccato (e la paura) con azioni espiatorie da presentare a Dio. Nel Nuovo Testamento invece la situazione è quasi esattamente capovolta. Non è l’uomo che si accosta a Dio per presentargli un’offerta riparatrice, ma è Dio che si avvicina all’uomo per accordargli un dono. Per iniziativa stessa della sua potenza amorosa, egli restaura il diritto leso, giustificando l’uomo colpevole mediante la sua misericordia creatrice e richiamando alla vita colui che era morto. La sua giustizia è grazia... Qui ci troviamo davvero di fronte alla svolta portata dal cristianesimo nella storia delle religioni: il Nuovo Testamento non dice che gli uomini si riconcilino con Dio, come del resto dovremmo attenderci, perché sono essi che hanno sbagliato, non Dio. Ci dice invece: "È stato Dio a riconciliare a sé il mondo in Cristo" (2Cor 5,19)» (Joseph Ratzinger).
Il capitolo 15 di Luca ci dice che non è l’uomo che cerca Dio, ma Dio che cerca l’uomo, lo porta sulle sue spalle e lo accoglie nuovamente nella sua casa: è Dio che si assume il gravoso impegno della reintegrazione del figlio prodigo e della pietà onerosa del samaritano (Lc 10, 29-37). "Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16). Dio si fa uomo, diventa membro a pieno diritto di questa umanità, ne è addirittura il capo, la testa, e in lui l’umanità intera offre a Dio un sacrificio d’amore: l’obbedienza assoluta a Dio, l’adesione a Dio fino alla morte.


                                                                           
FU CROCEFISSO, MORÌ E FU SEPOLTO

 
La vita di Cristo uomo-Dio è confrontata con quella di "un tale chiamato Barabba che si trovava in carcere insieme ai ribelli che nel tumulto avevano commesso un omicidio" (Mc 15,7) e il piatto della bilancia pende in favore di Barabba. Dio prenderà su di sé la croce che spettava all’assassino, morendo innocente al posto del colpevole. Non è un caso, non è un errore giudiziario.
 
Gesù è crocifisso tra due malfattori. Ufficialmente sono tre malfattori. Gesù è "messo fra i malfattori" (Mc 15,28) e nemmeno questo è un caso: è una scelta d’amore, una scelta di campo. Cristo si identifica sempre con le vittime, mai con i carnefici. E siccome, vittime e carnefici "senza distinzione, tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù" (Rm 3, 22-24). "Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurci a Dio" (1Pt 3,18).
 
Noi peccatori, nella nostra vita, abbiamo più bisogno di pentimenti che di belle pagine, ci nutriamo più di perdono e di misericordia che di belle parole. Prima di morire Gesù pronuncia una preghiera la cui eco non si spegnerà mai nei secoli: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno" (Lc 23,34).
 
Per accertarsi che Gesù fosse veramente morto, "uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue ed acqua" (Gv 19,34). Da quel momento l’unica legge è quella del cuore aperto che versa tutto il sangue per gli altri. Come Dio è Padre-Amore tutto per noi (1Gv 4,7.21) così anche il Figlio è Amore tutto per noi. "Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo... fu crocifisso per noi. Questo è il mio corpo offerto per voi... il calice del mio sangue versato per voi e per tutti".
 
Gesù, rifiutando l’egoismo di chi si chiude in se stesso si è svuotato per gli altri e crea una immagine nuova dell’uomo: l’uomo nuovo è l’uomo-per-gli-altri. "Gesù, essendo pienamente per gli altri, è pienamente se stesso, è modello della vera umanità. Diventare cristiani significa diventare uomini, concretizzando il vero essere umano che è "essere-per-gli-altri" ed "essere-per-Dio" (Joseph Ratzinger).
 
Morire è amare fino all’ultimo: e questo è vivere. "Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli" (1Gv 3,14).
 
È stato detto che si muore soli. Nulla di più falso. Solo Gesù è morto solo; noi moriamo con lui. Meglio, non moriamo, passiamo con lui alla Vita. La morte non ha più lo stesso volto, da quando Cristo vi è entrato e l’ha fatta sua. Prima la morte era solo morte, scomparsa, cancellazione, ora la morte non è più la soglia gelida della solitudine e del nulla; è la "porta stretta e la via angusta che conduce alla vita" (Mt 7,13) dietro la quale Cristo ci attende con le braccia aperte e con il cuore aperto. La morte non è più l’inferno; l’inferno è vinto da quando l’Amore e la Vita, Cristo, ci attende nel luogo che era chiamato il regno della morte.
 
Per Gesù morire significò "passare da questo mondo al Padre" (Gv 13,1); per il cristiano significa "essere sciolto dal corpo per essere con Cristo" (Fil 1,23). Nel momento supremo "Gesù, gridando a gran voce, disse: "Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito" (Lc 23,46); il cristiano, come Stefano, prega: "Signore Gesù, accogli il mio spirito" (At 7,59).
 
Fu sepolto. Era proprio necessario introdurre questa espressione in un simbolo della fede già così riassuntivo che aveva tralasciato completamente i fatti importanti della vita di Gesù, come la predicazione, i miracoli, ecc.?
 
La sepoltura, sotto la pietra della sua apparente banalità, nasconde la sua parte di mistero. Essa sottolinea una realtà fondamentale: Gesù fu veramente uomo come gli altri; aveva un corpo vero. Il seppellimento è il fatto più eloquente che ci fa dire d’un essere: è stato un uomo in carne e ossa. Non si possono seppellire uno spirito, un angelo, un demonio, un’idea, un’apparenza ecc. Cristo fu sepolto, come un uomo qualsiasi.
 
Il Signore è stato sepolto in circostanze ben precise. I vangeli le riferiscono minuziosamente. "Giuseppe d’Arimatea... chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse... Vi andò anche Nicodemo... e portò una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre (ossia Kg. 32,700). Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero in bende insieme con oli aromatici, com’è usanza seppellire per i giudei" (Gv 19,38-40). "Giuseppe, preso il corpo di Gesù, lo avvolse in un candido lenzuolo e lo depose nella sua tomba nuova che si era fatta scavare nella roccia: rotolata poi una gran pietra sulla porta del sepolcro se ne andò... Il giorno dopo, che era Parasceve (venerdì, giorno in cui si facevano i preparativi per il sabato), si riunirono presso Pilato i sommi sacerdoti e i farisei dicendo: "Signore, ci siamo ricordati che quell’impostore disse, mentre era vivo: dopo tre giorni risorgerò. Ordina dunque che sia vigilato il sepolcro fino al terzo giorno, perché non vengano i suoi discepoli, lo rubino e poi dicano al popolo: È risuscitato dai morti. Così quest’ultima impostura sarebbe peggiore della prima! Pilato disse loro: Avete la vostra guardia, andate e assicuratevi come credete. Ed essi andarono e assicurarono il sepolcro, sigillando la pietra e mettendovi la guardia" (Mt 27,59-66).
 
Dopo la feroce flagellazione, la crocifissione, il colpo di lancia al cuore, il rapporto ufficiale fatto dal centurione a Pilato, con una quantità di aromi capaci di asfissiare, nel piccolo spazio di una tomba chiusa, anche un sano, era evidente che Gesù giaceva morto, senza possibilità di ritornare in vita. Sigillando la pietra e mettendovi la guardia, non poteva nemmeno essere sottratto dai discepoli. La profezia di Gesù: "Dopo tre giorni risusciterò" era quindi, umanamente parlando, assolutamente impossibile.


DISCESE AGLI INFERI

La spiegazione di questo articolo del credo non è facile. Tuttavia non possiamo snobbarlo o svuotarlo del suo contenuto, affermando che tale immagine esprime solamente la realtà della morte. Il credo ha già proclamato la realtà della morte di Gesù: "Fu crocifisso, morì e fu sepolto". Qui fa un passo avanti e ci vuol dire qualche altra cosa. La discesa di Cristo agli inferi fa parte della sostanza della buona novella.
Prima di Cristo, tutti i popoli avevano una vaga idea (speranza o timore), di continuare a vivere dopo la morte e tentavano di "localizzare", di "materializzare" quello che doveva essere un modo di vivere, di esistere nel regno dei morti: sheòl per i giudei, ade o tartaro per i greci, inferi per i latini. Lasciando da parte ogni "localizzazione sotterranea", gli inferi erano l’incontro di tutti i defunti, lo stato (non il luogo) in cui ciascuno entrava quando raggiungeva i suoi antenati, come i fiumi vanno al mare. Sono questi gli inferi in cui Gesù Cristo, appena spirato, raggiunse gli spiriti, le anime di tutti gli uomini morti prima di lui e che aspettavano la salvezza.
Cosa vi andò a fare? "Andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione" (1Pt 3,19): "infatti è stata annunziata la buona novella anche ai morti, perché pur avendo subìto, perdendo la vita del corpo, la condanna comune a tutti gli uomini, vivano secondo Dio nello Spirito" (1Pt 4,6).
Gesù è venuto a salvare tutta l’umanità perché "Dio, nostro salvatore, vuole che tutti gli uomini siano salvati" (1Tm 2,4). Quando si dice tutti non si intende solo i contemporanei di Cristo e noi che siamo venuti dopo, ma anche quelli che erano esistiti prima. Questi ultimi Gesù li ha cercati, trovati e salvati dove erano: negli inferi.
"Disceso da solo agli inferi, Cristo ne è risalito con una moltitudine" (S. Ignazio di Antiochia).
Verso il 1550, i giapponesi si lamentavano con s. Francesco Saverio: "Se Dio è buono, perché non si è rivelato ai giapponesi prima del tuo arrivo? Perché ha tradito i nostri padri, nascondendo loro la conoscenza della verità? Se Dio vuole salvare tutti gli uomini per mezzo di Gesù Cristo perché ha tardato così a lungo a rivelarcelo?".
Nel 1919, il principe ereditario del Giappone Hiro-Hito, volle incontrare il card. Mercier e gli disse: "Ho letto nel vangelo, che Cristo ha comandato ai suoi discepoli di diffondere la sua dottrina in tutto il mondo. Perché allora i discepoli di Gesù non hanno eseguito il suo ordine? Esistono nel mio paese 80 milioni di abitanti, che non hanno mai inteso parlare della vostra religione".
Oggi esistono oltre quattro miliardi di non cristiani. Ad essi aggiungiamo tutti gli uomini esistiti dall’inizio (milioni di anni fa) fino ad oggi e tutti quelli che esisteranno fino alla fine dell’umanità e non diventeranno mai cristiani.
Che ne sarà di questa moltitudine immensa di uomini, che avranno vissuto e saranno morti "fuori della Chiesa"? Come si realizza concretamente la volontà di Dio, nostro salvatore, che vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. (cfr 1Tm 2,4)?
Scriveva Jean-Jacques Rousseau nel 1762: "Milioni e milioni di uomini non hanno mai udito parlare di Gesù Cristo!... Ma lo si nega e si sostiene che i nostri missionari vanno ovunque. Si fa presto a dirlo... Voi mi annunciate un Dio nato e morto duemila anni fa, all’altra estremità della terra, in una cittadina sconosciuta, e mi dite che chi non avrà creduto a questo mistero sarà dannato... Una mano sulla coscienza, e mettetevi al mio posto: debbo io credere, sulla sola vostra testimonianza, a tutte le cose incredibili che voi proclamate?... Se il figlio di un cristiano fa bene a seguire, senza un esame profondo e imparziale, la religione di suo padre, perché il figlio di un turco farà male a seguire parimenti la religione del suo? Sfido tutti gli intolleranti a rispondere a queste domande qualcosa che non contrasti col buon senso. Sotto la pressione di queste ragioni, alcuni preferiscono fare ingiusto Dio e punire gli innocenti per il peccato dei loro padri, piuttosto che rinunciare al loro barbaro dogma. Altri si tolgono dall’impiccio inviando necessariamente un angelo a istruire chiunque trovandosi in un’ignoranza invincibile, avesse vissuto moralmente bene. Oh, è proprio una bella invenzione un angelo siffatto..."
(Da: Profession de foi du vicaire savoyard, II parte, cap. 6).
La parola di Dio ci insegna che esiste "un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti" (Ef. 4,6). Il Verbo è "la luce vera, quella che illumina ogni uomo" (Gv 1,9).
"La presenza invisibile del Verbo è sparsa ovunque... Per mezzo di lui, tutto è sotto l’influsso dell’economia redentrice... Il Figlio di Dio ha tracciato il segno di croce sopra ogni cosa" (S. Ireneo +200 circa).
"Fuori della Chiesa nessuna salvezza", non ha altro significato che la parola di san Paolo: "Senza la fede è impossibile piacere a Dio"; ossia non esiste salvezza per chi resiste alla verità conosciuta. È interessante quanto scrive W. Pannemberg, professore protestante di Monaco nel suo libro "Il credo e la fede d’oggi": "Se Dio si è rivelato appena in Gesù, se solo in lui è apparsa la salvezza per l’umanità, che ne sarà allora di tutti gli uomini che vissero prima che apparisse Cristo, e che avverrà dei molti che non vennero mai a contatto col messaggio cristiano? Che ne sarà infine degli uomini che udirono sì parlare del messaggio di Cristo ma - forse per colpa dei cristiani stessi incaricati della predicazione - non hanno mai incontrato la verità di esso? Tutti questi uomini sono incorsi nella perdizione? Rimangono esclusi per sempre dall’intimità con Dio, che è stata aperta all’umanità da Cristo? A questi interrogativi la fede cristiana risponde no. Questo è il senso della formula della discesa di Cristo agli inferi nella professione di fede. Essa reca in sé questo senso: ciò che in Cristo è stato compiuto per l’umanità, vale anche per gli uomini che non sono mai venuti a contatto con Gesù e col suo messaggio, o che non sono mai riusciti realmente a scorgere la verità della sua figura e della sua storia".
L’umanità e ogni singolo uomo, nel momento stesso della loro suprema degradazione, sono raggiunti da Cristo salvatore. C’è un’evangelizzazione radicale, esistenziale, universale di tutti gli uomini da parte dello stesso Cristo che annuncia la buona novella e offre realmente la sua meravigliosa salvezza non solamente ai suoi contemporanei, non solo agli innumerevoli uomini che l’incontrano nella Chiesa visibile nel corso dei secoli, ma a ciascuno e a tutti gli uomini, quando e dove vivono, soprattutto nel momento della morte. Gesù è veramente il salvatore di tutti gli uomini. Solo così si avvera in modo pieno e totale quanto ha detto Cristo: "Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me" (Gv 12,32).


IL TERZO GIORNO RISUSCITÒ DA MORTE

Cosa significa: "Il terzo giorno è risuscitato secondo le Scritture"? Quali Scritture? Dove sta scritto?
Si è d’accordo nel vedere il punto di partenza di questa formula nel libro del profeta Osea: "Venite, ritorniamo al Signore: egli ci ha straziato ed egli ci guarirà. Egli ci ha percosso ed egli ci fascerà. Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo giorno ci farà rialzare e noi vivremo alla sua presenza" (Os 6,1-2).
Il targum (traduzione-attualizzazione-commento in aramaico della Scrittura) interpreta così questo testo: "Ci farà vivere nel giorno delle consolazioni che devono venire; nel giorno in cui farà rivivere i morti, ci farà risorgere e noi vivremo davanti a lui".
Un commento rabbinico su Gen 22,4 ("Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo") afferma: "Il terzo giorno, cioè quello nel quale la vita viene restituita ai morti, secondo quanto è scritto in Osea: Il terzo giorno ci farà risorgere e noi vivremo davanti a lui".
All’epoca di Cristo quando si parlava del "terzo giorno secondo le Scritture" non si voleva dunque intendere una semplice annotazione cronologica (il posdomani), ma un contenuto teologico "il giorno della risurrezione generale" alla fine dei tempi.
Dicendo che Gesù è risorto "il terzo giorno secondo le Scritture", i discepoli non intendono dare una data, ma proclamare la loro fede: il giorno della risurrezione generale (il terzo giorno) è già venuto con la risurrezione di Cristo, la nostra risurrezione è già realizzata in Gesù.
Fatta questa doverosa spiegazione, accostiamoci all’evento pasquale seguendo tre tappe.
1) I discepoli di Gesù gridano la loro fede: il kerygma;
2) I discepoli di Gesù celebrano la loro fede: credo e cantici;
3) I discepoli di Gesù raccontano la fede: i racconti evangelici.
1) Il kerygma. Negli Atti degli Apostoli sono riportati molti discorsi: otto di Pietro, nove di Paolo e sette di altre persone. Leggendo questi discorsi possiamo vedere come i primi cristiani proclamavano la loro fede. La maggior parte di questi discorsi sono rivolti ai giudei o ai pagani per indurli alla conversione. È qui che cercheremo di scoprire il messaggio essenziale: il kerygma. Ne proponiamo cinque, in cui partendo da situazioni diverse, Pietro, Paolo e Giovanni dicono solennemente le stesse tre cose:
Questi documenti rappresentano quanto di più antico abbiamo nella letteratura cristiana. Il loro contenuto assolutamente simile, il loro linguaggio arcaico infarcito con modi di dire aramaici, ci portano necessariamente ad ammettere che tali discorsi non furono "ricomposti" da san Luca quando redasse gli Atti (verso l’anno 80), ma furono ripresi e tradotti da documenti aramaici, trasmessi dalla Chiesa delle origini.
2) Credo e cantici. Verso l’anno 45, s’inizia nella Chiesa a mettere per scritto i ricordi e l’insegnamento orale degli apostoli. A questo materiale scritto attingeranno gli evangelisti e san Paolo. I testi più antichi del Nuovo Testamento sono appunto le lettere di s. Paolo, a partire dal 50. Il primo dei nostri vangeli (Marco) sarà redatto all’epoca della morte di Paolo, nel 67.
Per quanto riguarda la risurrezione del Signore, limitiamoci alle cose più tipiche.
Paolo aveva fondato la Chiesa di Corinto nel 50-51. Nella primavera del 56 scrive a questa comunità: "Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l’ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano! Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto" (1Cor 15,1-8).
"Vi ho trasmesso": Paolo continua una "tradizione" già fissata in un credo battesimale che l’apostolo ha lui stesso ricevuto a Damasco in occasione della sua conversione verso il 34-35.
Né gli Atti degli apostoli né Paolo descrivono la risurrezione. L’affermano come un fatto, attuale, incontestabile, di cui vivono, per il quale muoiono e di cui proclamano il significato partendo dalle Scritture. Per la Chiesa primitiva importa una sola cosa: Gesù è risorto! "Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo" (Rm 10,9). "Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui" (1Ts 4,14).
Nelle lettere degli apostoli, nei vangeli e nell’Apocalisse si trovano cantici composti dalle prime comunità nei quali è chiaramente cantata la fede nella risurrezione di Cristo. Ne riportiamo due. "Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre" (Fil 2,5-11).
"Possa egli (il Padre) davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti secondo l’efficacia della sua forza che egli manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa nominare non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro.
Tutto infatti ha sottomesso ai suoi piedi e lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa, la quale è il suo corpo, la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose" (Ef 1,18-23).
3) I racconti evangelici. Abbiamo udito i discepoli annunciare la loro fede ai non credenti (il kerygma) e celebrarla nelle loro comunità (credo, cantici). Il centro di questa fede è sempre uguale: Dio ha risuscitato, glorificato, fatto Signore, questo Gesù che era stato crocifisso.
La stessa fede viene espressa anche nei racconti evangelici. Qui non si afferma la fede in brevi formule, ma la si racconta, la si fa vedere. Il racconto evangelico corrisponde al bisogno di una comunità già costituita che vuole saperne di più sul significato dell’evento.
I racconti non dicono sugli avvenimenti più di quanto già sapevamo dalle brevi formule del kerygma; essi lo dicono solamente in un altro modo e ne sviluppano il significato.
I quattro vangeli seguono, in ordine di tempo, immediatamente le lettere di Paolo. Il vangelo di Marco è composto negli anni 67/70, quello di Luca tra il 70 e 1’80, quello di Matteo verso gli anni 80, quello di Giovanni negli ultimi anni del primo secolo.
Nei vangeli non c’è un racconto della risurrezione e questa assenza del racconto della risurrezione è la migliore garanzia che i vangeli non sono opera di falsari. Gli apocrifi ci avrebbero sommersi con un’infinità di particolari. In se stessa, dunque, la risurrezione non ebbe testimoni.
Alcune persone andarono al sepolcro di Gesù il mattino di Pasqua e lo trovarono vuoto. È questo il solo racconto comune ai quattro vangeli. La tomba vuota non prova niente, non spiega niente, ma rinvia al mistero, a una rivelazione angelica: "Non è qui" (Mt 28,6).
Se ci fosse stato solo il sepolcro vuoto, non avremmo mai avuto una fede pasquale. Quest’ultima nasce perché ci furono le apparizioni di Cristo. Ma se la tomba non fosse stata vuota, le apparizioni non sarebbero state credibili.
Gli apostoli e i discepoli non hanno visto uno spirito evanescente, disincarnato, un fantasma, ma lui realmente vivo. Gesù stesso li assicura: "Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho" (Lc 24,39). Invita Tommaso a fare la ricognizione delle sue cicatrici (Gv 20,27). Condivide il loro cibo (Gv 21,12). È veramente presente nell’evidenza della sua realtà fisica.
La risurrezione è tutto il contrario di un avvenimento inventato dai discepoli. Tale avvenimento si è imposto loro dall’esterno, li ha convinti nonostante la loro incredulità: "Ancora non credevano ed erano stupefatti" (Lc 24,41). Tommaso rimarrà famoso fino alla fine dei secoli per la sua incredulità; solo l’evidenza palpabile del fatto lo costringerà ad arrendersi. Paolo sulla strada di Damasco ha tutto fuorché la fede quando il Signore lo atterra: era un non credente militante che si prodigava a perseguitare i credenti. Gesù ha imposto l’evidenza della sua risurrezione a persone che non credevano e che vedendolo davanti a loro, cominciarono a dubitare della stessa evidenza (cfr Mt 28,17; Mc 16,14).
Gesù Cristo è risorto e noi ne siamo testimoni, noi cristiani, noi Chiesa. La morte è stata vinta e noi ne siamo testimoni. Vinta con una vittoria reale, universale, definitiva. Cristo ha vinto la morte del mondo!
Noi cristiani conosciamo un fatto che interessa tutti gli uomini perché si oppone alla morte di tutti: Gesù Cristo ha vinto la morte degli uomini.
La nostra fede è un fatto di portata mondiale. Tutti gli uomini sono sottoposti alla morte e a tutti fa piacere che uno, Cristo Gesù, abbia trovato il rimedio, l’antidoto per tutti contro la morte.
Gesù le disse: "Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno" (Gv 11,25-26). "Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria (sulla morte) per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!" (1Cor 15,57).
Se giunge alle orecchie degli uomini la notizia che la morte è vinta, allora il rischio non è più un rischio, il sacrificio non è più un suicidio, l’invecchiamento non è più una catastrofe, la vita non è più una prigionia in attesa della forca. Come per Cristo anche per il cristiano e per ogni uomo di buona volontà che cerca Dio con cuore sincero, la morte è "l’ora di passare da questo mondo al Padre" (Gv 13,1), dalla vita alla Vita.


SALÌ AL CIELO, SIEDE ALLA DESTRA DI DIO PADRE ONNIPOTENTE

Parlare di "discesa agli inferi" e di "salita al cielo" significa collocarci nell’universo a tre dimensioni, che è quello dell’esperienza immediata che noi viviamo. La  Bibbia, che è scritta per gli uomini, usa questo modo universale di esprimersi. Per essa il cielo, in alto, è il luogo dove abita Dio; la terra è il luogo dove abitano gli uomini; gli inferi, in basso, sono il luogo dove abitano i morti e i demoni. Di conseguenza per visitare gli uomini Dio "discende" dal cielo; poi vi "risale". La "nube" è il suo veicolo.
Noi continuiamo a usare queste immagini nel linguaggio corrente, senza però esserne schiavi. Le nozioni di alto e basso sono relative alla posizione dell’osservatore, ma non hanno alcun valore in se stesse. Milano è a nord per chi sta a Roma e a sud per chi vive in Svizzera. Lo stesso dicasi del cielo; quello sotto cui viviamo è in alto, quello degli antipodi è in basso rispetto a noi. Di conseguenza Dio non è né in alto né in basso: è ovunque e al di là di tutto.
Solo due vangeli, Marco e Luca, ricordano il fatto visibile dell’ascensione di Gesù: "Il Signore, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio" (Mc 16,19); "Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo" (Lc 24,51).
Quando diciamo e crediamo che Cristo glorioso è asceso al cielo dove siede alla destra del Padre, intendiamo dire che è entrato per sempre nel mondo spirituale nuovo, definitivo; inaccessibile ai nostri sensi e alla nostra immaginazione, ma reale, molto più reale del nostro mondo attuale.
S. Pietro, il mattino di Pentecoste, aveva espresso in sintesi la fede pasquale: "Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso come voi stessi potete vedere e udire" (At 2,32-33).
Pietro e gli apostoli davanti al sinedrio affermano: "Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo alla croce. Dio lo ha innalzato con la sua destra facendolo capo e salvatore per dare a Israele la grazia della conversione e il perdono dei peccati" (At 5,30-31).
Paolo scrive agli Efesini: "Il Dio della gloria... risuscitò (Cristo) dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni principato e autorità..." (Ef 1,17-23).
Gesù di Nazaret abbandona la nostra condizione umana, terrena e mortale, per assumere, in qualità di uomo, la condizione divina e diventare simile a Dio. L’"elevazione" di Cristo consiste innanzitutto in questo: un uomo è assiso alla destra del Padre in piena uguaglianza con lui ed è Signore come lui.
Per Gesù risorto non esistono più limiti di tempo, di spazio, ecc.: un uomo della nostra razza, sottoposto a tutte le condizioni della nostra umanità, con il suo trionfo sulla morte acquista le incalcolabili dimensioni dell’universo, la pienezza inesauribile e senza limiti di Dio. Ripieno di Dio riempie tutte le cose.
Gesù non rifiuta il suo corpo, ma lo trasfigura e lo divinizza in pienezza. In tal modo diventa infinitamente libero ed è presente ovunque. La risurrezione-ascensione lo rende realmente presente a tutti gli uomini suoi fratelli. Il Signore quindi fu liberato non dalla materia, ma dai suoi limiti terreni.
Ciò che è accaduto a Cristo, accadrà a tutta l’umanità. La sua risurrezione-ascensione è annuncio e anticipazione della nostra. "Dio ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere in Cristo: per grazia infatti siete stati salvati. Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli in Cristo Gesù" (Ef 2,4-9).
L’ascensione non è evasione dai drammi vissuti dai nostri fratelli; non è contemplazione dei bei panorami teologici fine a se stessi. Questo "Cristo universale" è in me e chiede il mio cuore e le mie braccia per servire e salvare. I cristiani devono essere i testimoni di una promessa che fa nascere cose nuove nella storia. Testimoni significa operatori: non nascerà niente di nuovo se non attraverso l’impegno temporale e politico degli uomini in favore della giustizia e della pace. L’ascensione ci rinvia quasi brutalmente alla terra e ai suoi urgenti bisogni: "Perché state a guardare il cielo?" (At 1,11).
Gesù il glorificato diventa il difensore efficace di qualunque uomo oppresso.
La Bibbia ci presenta Dio che libera dalle oppressioni di ogni genere il suo popolo in questo mondo. La storia del popolo ebreo comincia con un’esperienza di liberazione sociale e politica di cui Dio prende l’iniziativa e la direzione: libera dalla schiavitù degli Egiziani i discendenti di Abramo e li conduce a casa loro nella terra promessa. Il Signore è "colui che ha fatto uscire il suo popolo dall’Egitto" e l’ha portato alla libertà. Dio ama l’uomo e fa alleanza con lui e pretende che quest’uomo sia rispettato. Dio ama l’uomo a tal punto perché è suo figlio, perché ogni uomo è una cosa sola con suo Figlio, perché per ogni uomo Dio ha un solo progetto, una sola idea da realizzare: risuscitarlo, glorificarlo, divinizzarlo, farlo sedere alla sua destra.
Liberatore degli oppressi, Dio invita il suo popolo a imitarlo. Le pratiche religiose e il culto sono cose secondarie (cfr Is 1,10-20). "Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo...?" (Is 58,6-10).
Gesù inaugura la sua missione proclamando: "Lo Spirito del Signore è sopra di me... e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore" (Lc 4,18-19).
Egli ha messo mano a questa lotta di liberazione contro l’oppressione dei poteri e in primo luogo contro la malvagità dei nostri cuori. Molti di noi sono ancora affetti da cecità: non vedono negli avvenimenti di liberazione dell’uomo la mano di Gesù Cristo liberatore. Gesù, Figlio di Dio incarnato, ha condotto questa battaglia senza staccarsi dal contesto umano e storico in cui si è trovato a vivere: ha guarito i malati, ha nutrito gli affamati, ha lottato contro un mondo molto concreto di oppressori: lui stesso conobbe la sofferenza, l’ostilità e la morte.
Gesù ha lottato per spezzare la spirale infernale dell’odio: ha invitato al perdono e all’amore. Nella lotta per l’uomo, il perdono e l’amore sono le uniche armi che Cristo ha messo in mano ai suoi soldati. Essi devono lottare fino allo stremo delle forze, ma senza odio. L’odio genera odio. Se l’odio vince, si ricomincia da capo: gli oppressi di ieri diventano gli oppressori di oggi. La clessidra viene ribaltata, ma nessuno viene liberato, salvato, amato.
Gesù non è venuto a innalzare barricate, ma a distruggerle. "Egli è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia ..." (Ef 2,14-18).
Non vuole spade: "Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada, periranno di spada!" (Mt 26,57). Non vuole nemmeno legioni di angeli (cfr Mt 26,53). Scopo del suo grido contro la schiavitù dei poveri e l’oppressione dei potenti non è quello di ottenere che la potenza di Dio spazzi via tutti i profittatori e tutti i malvagi dalla faccia della terra: la posta in gioco della sua vita e della sua morte è che l’uomo sfruttato o sfruttatore, vittima o carnefice, sia liberato dal proprio odio. Ora, nessuna violenza, nessuna dimostrazione di potenza libera l’uomo dall’odio. Al contrario!
Un Dio non incarnato non poteva perdonare agli sfruttatori delle lacrime e dei sudori degli uomini: doveva punire e vendicare. Il vero Dio però è diverso. Appartiene al numero degli schiacciati dalla società; è il loro Signore. Per questo può perdonare e aprire la via della riconciliazione e della pace. Gesù non ha perdonato in astratto. Solo colui che è stato torturato può perdonare al torturatore. Solo colui che fu oggetto di odio può manifestare l’impotenza e la sconfitta dell’odio perdonando. Il perdono dato da Gesù nel momento della sua morte: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno" (Lc 23,34) è un perdono carico di tutta la storia dello stesso Gesù. Egli era stato perseguitato, calunniato, percosso, disprezzato, ridicolizzato, condannato ingiustamente e moriva come un criminale e un bestemmiatore. Dio Padre fa proprio questo perdono e costituisce Gesù come Signore e giudice: giudice secondo le sue categorie (amore e perdono) naturalmente! Solo il perdono apre sul futuro, sia per chi è perdonato sia per chi perdona: un futuro comune all’uno e all’altro.
L’uomo che si chiude nell’odio vuole distruggere colui che odia, vuole eliminarlo. Solamente il perdono si contrappone alla logica della guerra.
Nel momento del perdono scaturisce la speranza che chi viene perdonato capisca la sterilità della propria logica di morte. Gesù non prega Dio perché stermini i suoi nemici, ma inaugura un futuro luminoso per lo stesso peccatore-nemico perché dimostra con il suo perdono che nessuno è chiuso definitivamente nella morte.
Dio non può più diventare una pezza giustificativa degli odi di parte, di razza, di classe e nemmeno può essere preso come garante d’una giustizia implacabile. Dio può essere invocato solo quando il perdono è stato concesso in misura piena, definitiva e senza condizioni.
"Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme; egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; oltraggiato, non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a colui che giudica con giustizia" (1  Pt 2,21-23). Colui che fu ingiustamente crocifisso e che ha perdonato è lo stesso che è stato intronizzato alla destra di Dio Padre. E non si interpreti tutto questo come debolezza, come un ritorno alla rassegnazione e al vittimismo! Questo crocifisso che è Dio e non muove un dito per difendere se stesso, è più forte dei vincitori di tutte le guerre perché l’odio è il massimo della debolezza e l’amore il massimo della forza.
La risurrezione-ascensione è la ratifica di Dio attraverso la quale abbiamo la certezza che l’amore e il perdono sono la via giusta, l’arma vincente. Solo l’amore avrà l’ultima parola perché Dio è amore.


                                                   
DI LÀ VERRÀ A GIUDICARE I VIVI E I MORTI

Il cristianesimo non è una faccenda privata fra Dio e il singolo. La parabola vera del giudizio (Mt 25,31-46) ci insegna l’identità tra la causa degli uomini e quella di Gesù: tutto avviene nel contesto di un confronto generale.
La Scrittura non ricorda mai direttamente il giudizio particolare (individuale) mentre il solo Nuovo Testamento parla più di settanta volte del giudizio universale.
La parabola del ricco cattivo e del povero Lazzaro (Lc 16,19-31) e la promessa fatta da Gesù al buon ladrone: "In verità ti dico oggi sarai con me in paradiso" (Lc 23,43) ci portano però a credere che c’è una retribuzione prima del giudizio finale. In tale senso si è espressa anche la dottrina della Chiesa.
Il nostro incontro con Dio non avrà nulla a che vedere con una procedura d’accusa, di difesa, di sentenza; né con un particolareggiato rendiconto di chi deve presentare un bilancio. Non ci troveremo a faccia a faccia con un Dio irritato, scrupolosamente documentato sui nostri misfatti per poterceli gettare violentemente in faccia senza dimenticarne alcuno. Tutto quanto non è amore non ha nulla a che vedere con Dio. Quindi questo "giudizio" va inteso come un attesissimo incontro tra due amici; non ha nulla di terribile e ha tutto di stupendamente bello; è l’incontro con l’Amore in persona, con la tenerezza assoluta; è l’immersione totale nell’"ampiezza, lunghezza, altezza e profondità dell’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza e ci ricolma di tutta la pienezza di Dio" (cfr Ef 3,18-19).
Certamente esiste anche il giudizio di condanna per coloro che rifiutano l’amore: Dio rispetta la libertà dell’uomo proprio perché lo ama.
13.1 Il purgatorio
Il Concilio Vaticano II nella Lumen gentium afferma semplicemente che "la Chiesa di quelli che sono in cammino... fino dai primi tempi della religione cristiana ha coltivato con una grande pietà la memoria dei defunti e poiché santo e salutare è il pensiero di pregare per i defunti, perché siano assolti dai peccati" (2Mac 12,46), ha offerto per loro anche dei suffragi" (LG, 50).
Mettiamo dunque una pietra sopra un purgatorio tutto fuoco e fiamme. Fino al secolo XII "purgatorio" era un aggettivo. Si parlava di pene purgatorie cioè di pene che purificano. Fu uno sbaglio non solo grammaticale cambiare l’aggettivo in sostantivo. Ne venne fuori un luogo, una prigione con tutti gli orrori di "alme gementi fra vindici ardor".
Il purgatorio è un mistero di maturazione pasquale. E’ un’"incubatrice" dove ci è dato di portare a compimento quella crescita nella vita divina che non abbiamo realizzato nella vita presente; è l’ultimo tocco estetico prima di entrare nella vita eterna. Le anime sante del purgatorio stanno decisamente meglio di noi. "Non credo che dopo la felicità dei santi in paradiso, possa esistere una gioia paragonabile a quella delle anime del purgatorio" (s. Caterina da Genova +1510. Trattato del purgatorio, cap. 2). "Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero; la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace... la loro speranza è piena di immortalità... Coloro che gli sono fedeli vivranno presso di lui nell’amore perché grazia e misericordia sono riservate ai suoi eletti" (Sap 3,1-9).
13.2 Il giudizio universale
Gli uomini saranno giudicati da un fratello, da un uomo. "Il Padre, infatti, non giudica nessuno, ma ha rimesso ogni giudizio al Figlio, perché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre" (Gv 5, 22-23). Venuta gloriosa di Gesù e giudizio universale saranno un solo avvenimento, l’ultimo della storia, il compimento totale e definitivo della divinizzazione dell’uomo. Sarà il giorno della "grande ricompensa" (Mt 5,12). "Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute, finché era nel corpo, sia in bene che in male" (2Cor 5,10). "Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità; sdegno ed ira contro coloro che per ribellione resistono alla verità e obbediscono all’ingiustizia" (Rm 2, 6-8). "Tutti infatti ci presenteremo al tribunale di Dio... Quindi ciascuno renderà conto a Dio di se stesso" (Rm 14,10-12).
Risulta chiaro che saremo giudicati sulle opere alla luce del comandamento di Dio. "Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato" (1Gv 3,23). Credere in Gesù Cristo e amare i fratelli sono "le opere che ci seguono" (cfr. Ap 14,13) e secondo le quali ciascuno sarà retribuito. Ne consegue che il primo peccato che ci porta alla condanna è il rifiuto ostinato di credere. È il peccato contro lo Spirito Santo, il peccato che non può essere perdonato in quanto l’orgoglio dell’uomo si allinea con quello di satana e gli impedisce il pentimento. A coloro che chiedevano: "Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?" Gesù rispose: "Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato" (Gv 6,28-29).
"Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio" (Gv 3,16-18).
"In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita... Verrà l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno: quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna" (Gv 5, 24-29).
In quale situazione si trovano davanti a Dio l’ignorante, il pagano, il non credente, l’ateo in buona fede e tutti coloro che non hanno avuto la fortuna di credere?
"Dio stesso non è lontano dagli altri che cercano un Dio ignoto nelle ombre e nelle immagini... e come salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati (cfr 1Tm 2,4). Infatti quelli che senza colpa ignorano il vangelo di Cristo e la sua Chiesa e tuttavia cercano sinceramente Dio e con l’aiuto della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di Dio, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna" (Concilio Vaticano II. LG, 16).
Tutti gli uomini di buona volontà, cristiani e non, sono così riportati e allineati al medesimo punto di partenza per la seconda prova dell’ultimo giudizio: l’amore reciproco.
"Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore" (s. Teresa di Lisieux). Sull’amore concreto, quello alla portata di tutti: dare da mangiare, da bere, alloggiare, vestire, visitare, assistere, prendersi cura: l’amore che avremo prodigato o rifiutato all’uomo (Mt 25). Cristo stesso ci avverte che al momento del giudizio molti tireranno fuori le loro tessere di praticanti. "Molti mi diranno in quel giorno (quello del giudizio): Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità" (Mt 7,22-23).
La vera religione è quella che ci lega a questo Dio in incognito che si identifica con ogni uomo sofferente. A nulla servono i sette sacramenti se non portano a celebrare il "sacramento del fratello", a incontrare Dio nell’uomo. Pochi uomini hanno incontrato Cristo e lo hanno conosciuto, ma tutti hanno incontrato dei fratelli bisognosi d’aiuto, dei nemici da perdonare e tutti costoro "ero io, l’avete fatto a me, non l’avete fatto a me" (Mt 25) dirà Cristo. Dove c’è un uomo, lì c’è Cristo. E non è la stessa cosa per Cristo che una nazione soffochi l’altra o l’aiuti, che faccia la guerra o lavori per la pace, che equilibri la bilancia dei pagamenti esportando grano o vendendo armi...
Tutti noi saremo giudicati sull’amore. I sistemi economici saranno giudicati sull’amore. I partiti politici saranno giudicati sull’amore. Il vangelo non è neutrale. Cristo non è neutrale. Sta dalla parte del povero. Anche la Chiesa sarà giudicata sull’amore, sul servizio e l’impegno in favore degli oppressi e degli sfruttati e non sulle belle dichiarazioni dottrinali o sul codice di diritto canonico. Io, prete o laico, giovane o adulto, sarò giudicato sull’amore.
Pietro in casa di Cornelio a Cesarea proclama: "(Gesù Cristo) ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio" (At 10,42).
I vivi sono coloro che saranno in vita al momento della venuta finale di Cristo; i morti, coloro che, già defunti, allora risusciteranno per il giudizio.
Dobbiamo fare una precisazione. Gesù nel vangelo (Mt 22,32) nega che si possa fare distinzione tra vivi e morti: esistono solo dei vivi. La morte non produce dei morti, ma è solo un passaggio verso un’altra vita. I defunti (defunctus = colui che si è liberato da un obbligo gravoso e spiacevole, colui che ha smesso le sue "funzioni" in questa vita) non sono dei morti, ma dei vivi. Quindi possiamo parlare abitualmente di vivi e di morti per distinguere i nostri compagni di vita "presenti" da quelli "scomparsi".
A noi, figli dei grandi inquisitori, allucinati dai roghi e dalle torture medievali, l’idea del giudizio fa tremare le vene e i polsi. La comunità cristiana primitiva, invece, illuminata dalla fede degli apostoli, interpretò il ritorno di Cristo come un avvenimento carico di speranza e di gioia, come il ritorno dello Sposo per la sposa. Dobbiamo trovare la dolcezza e l’ottimismo di questa espressione rivelata: "Verrà a giudicare i vivi e i morti" (2Tm 4,1). Affermare: "Il giudice è Gesù" è molto più rassicurante e consolante che se dicessimo: "Il giudice è la mia mamma" , perché Gesù ci ama tutti infinitamente di più delle nostre mamme. Il giudizio, quindi, è perdono e premio per i vivi e per i morti. Dalla festa eterna saranno esclusi solo quelli che ostinatamente si saranno rifiutati di credere, di amare e di lasciarsi amare.
"Se Dio è per noi chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo?... Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura, potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore" (Rm 8, 31-39).
Beati coloro che credono a questo amore!
Beati coloro che vivono lo stupendo dialogo, che chiude l’Apocalisse: "Sì, verrò presto! Amen! Vieni Signore Gesù!" (Ap 22,20).


                                                     
CREDO NELLO SPIRITO SANTO

Questa terza parte del Simbolo è la rivelazione dell’opera dello Spirito negli uomini.
Gesù dice: "Lo Spirito di verità... voi lo conoscete perché dimora presso di voi e sarà in voi" (Gv 14,17). "Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra!" (At 1,8). Questa presenza, questo dinamismo profondo di Gesù nella Chiesa e nel mondo, hanno un nome, sono una persona: lo Spirito Santo.
In questa parte del Credo non trattiamo dello Spirito santo in quanto persona divina, ma in quanto dono di Dio agli uomini. Infatti noi conosciamo Dio solo mediante i suoi rapporti con noi. Non è facile parlare dello Spirito santo. Ci riesce meno difficile immaginarci il Padre e il Figlio, non fosse altro che per il loro nome: la terra è piena di padri e di figli e questo ci dà la possibilità di trovare una rassomiglianza nel nostro mondo visibile.
Invece il nome Spirito non ci evoca nessun volto umano, si presenta così astratto che si fa fatica a capire che lo Spirito santo è una persona viva con la quale è possibile instaurare dei rapporti.
Cerchiamo di conoscere lo Spirito soprattutto attraverso il suo agire. Invisibile in sé, diventa visibile negli effetti che produce.
È precisamente attraverso gli effetti della sua azione che lo Spirito santo si è fatto conoscere e continua a manifestarsi.
Spirito vuol dire soffio, vento. Ora provate a disegnare il vento. Il vento non si disegna, non è possibile: si avverte, se ne intuiscono gli effetti. Se voi vedete un filo orizzontale carico di biancheria gonfia e tutta rivolta verso la stessa direzione o le cime degli alberi che si muovono, dite: "Soffia il vento e soffia in quella determinata direzione". Così è dello Spirito santo.
Il volto dello Spirito è impercettibile. Solo prestando attenzione alle sue manifestazioni e aprendosi alle sue meraviglie si vede lo Spirito. Egli si manifesta nei suoi doni, nei suoi carismi, nelle sue opere, nel mondo e dentro di noi.
Lo Spirito è l’anima della Chiesa, la sorgente di tutto il suo dinamismo. Gesù manda gli apostoli a predicare (Mt 28,19-20; Mc 16,15-20), ma è lo Spirito che parla attraverso di loro: "Non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi" (Mt 10,20). La Chiesa è l’opera realizzata da questi due artefici del Padre: il Figlio e lo Spirito. Questi due grandi operai, Gesù e lo Spirito, lavorano alla stessa opera per la gloria del Padre vivificando l’umanità e sostenendola nella sua fragilità.
"Senza lo Spirito santo, Dio è lontano; Cristo resta nel passato, il vangelo è una lettera morta, la Chiesa una semplice organizzazione, l’autorità un potere, la missione una propaganda, il culto un ricordo, e l’agire cristiano una morale di schiavi" (Patriarca Atenagora).
L’intelligenza umana penetrata dallo Spirito ribalta la scala tradizionale dei valori. Quanto il mondo stima al di sopra di tutto (denaro, salute, cultura, posizione sociale, reputazione, ecc.) diventa veramente relativo per chi ha compreso che solo Dio può colmare il cuore e dargli beatitudine. È lo Spirito che introduce nelle beatitudini. Le beatitudini (Mt 5,1-12; Lc 6,20-24) non sono affatto un insegnamento per pochi privilegiati, ma per tutti i battezzati; sono un’esperienza di vita proposta a ogni discepolo: sono la magna charta, il manifesto cristiano.
Il cristiano che vive le beatitudini è un pazzo, ma non è il solo: è folle come il suo Dio.
Lo Spirito è la fonte della libertà cristiana. "Libertà è poter fare ciò che si deve fare" (Montesquieu). Siamo liberi esattamente nella misura in cui possiamo amare gli altri. "Bisognerebbe fare in modo che nemmeno una volta nella vita si abbiano a compiere i propri doveri religiosi, perché costretti o per obbedire a pure convenienze" (Lacordaire).
La legge è cristiana solo se è interiorizzata nel cuore. Solo l’amore giustifica la legge. Senza l’amore la legge uccide. "Ama e fa’ quello che vuoi" (s. Agostino). "La cosa più importante nella legge del Nuovo Testamento, nella quale consiste ogni virtù, è la grazia dello Spirito Santo, data con la fede in Cristo. Quindi la legge nuova consiste principalmente in questa stessa grazia dello Spirito santo concessa ai fedeli di Cristo" (s. Tommaso. Summa I-II q. 106, a.1).
Libertà non è libertinaggio, ma servizio e amore a Dio e al prossimo. "Voi infatti siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non diventi un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate al servizio gli uni degli altri. Tutta la legge, infatti, trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso... Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è legge. Ora quelli che sono in Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito" (Gal 5,13-25).
La vita dello Spirito d’amore in noi ci fa diventare più uomini, risana le nostre coscienze e i rapporti umani, ristabilisce un clima fraterno ovunque ci troviamo.
Nello Spirito Santo, la morale diventa la legge di Cristo, la vita di figli di Dio, perché "tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio" (Rm 8,14). Nello Spirito i nostri rapporti con gli altri sono trasformati: siamo fratelli. Lo Spirito santo ci insegna a non cercare solamente la nostra felicità perché sarebbe il modo migliore per non trovarla. Saremo felici solo quando gli altri saranno felici con noi. Lo Spirito è venuto sulla terra per rimettere in sesto l’umanità disfatta, il nostro mondo in cui gli uomini non si comprendevano più (cfr. Gen 11,1-9). La Pentecoste (At 2,1-13) è l’attacco definitivo e già vittorioso contro tutti i nazionalismi, i razzismi e tutti gli "ismi" che dividono e contrappongono gli uomini.
Le condizioni in cui lo Spirito santo si dà e opera, sono essenzialmente comunitarie. Lo Spirito è dato alla Chiesa. "Quando ricevettero la forza e la luce dall’alto, i capi e i membri della Chiesa nascente non erano separati e dispersi, erano invece riuniti in un medesimo luogo e uniti come un cuore solo e formavano un’unica assemblea di fratelli... Così ogni fratello fu colmato dei doni celesti in quanto formava un’unità morale con tutti gli altri discepoli" (Möhler).
Lo Spirito Santo ci mette tutti insieme. Fa lavorare all’unico disegno di Dio uomini di ogni estrazione che non s’erano mai incontrati prima di allora. È il grande regista degli incontri umani.
Lo Spirito Santo è il grande missionario e con lui sono missionari tutti coloro che si lasciano invadere da lui. Nella comunità primitiva, quando si voleva affidare un compito a qualcuno, si cercava chi fosse maggiormente pieno di Spirito Santo come nel caso della elezione dei sette: "Cercate, dunque, fratelli, tra di voi sette uomini di buona reputazione pieni di Spirito Santo e di saggezza, ai quali affideremo quest’incarico... ed elessero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo..." (At 6,3-5).
Ogni cristiano ha ricevuto lo Spirito ed è inviato in missione a tutti gli uomini indistintamente. La classificazione degli uomini in buoni e cattivi è semplicistica e ingiusta. Naturalmente i buoni saremmo noi e i cattivi gli altri. Spesso questi "cattivi" sono cancellati dai programmi delle nostre attività pastorali e dal nostro orizzonte missionario. Noi possiamo essere missionari verso ogni uomo solo se siamo persuasi che lo Spirito Santo lavora in ogni coscienza.
"La terra è una grossa bestia. Ci si affatica, ci si avvilisce, ci si prostituisce, ci si uccide, e ci si fa l’abitudine" (Victor Hugo. I miserabili). Ci si fa l’abitudine e ci si dichiara sconfitti in partenza. Solo lo Spirito ci fa capire e credere che il regno di Dio non è al di là, un altro mondo, ma esattamente questo nostro mondo che deve diventare diverso, altro.
Il nostro mondo continua a essere costruito sull’odio mentre lo Spirito vuole ricostruirlo sull’amore. La fraternità umana è possibile. Possiamo fare uscire il nostro mondo dalla sua logica fratricida e da quella triade diabolica che si chiama uccidere, mentire e giudicare. I cristiani devono essere in prima fila fra coloro che ricostruiscono il mondo sull’amore, il cui vero nome è Spirito Santo.


LA SANTA CHIESA CATTOLICA

Il simbolo degli apostoli ci fa dire: "Credo in Dio Padre... in Gesù Cristo... nello Spirito santo"; e poi "credo la santa Chiesa".
Dio non si vede: lo si crede o lo si nega. Possiamo negare Dio, Cristo, lo Spirito, ma non si può negare la Chiesa perché è un fatto. Possiamo ignorare il significato di questo fatto, il mistero, ma neppure un ateo che nega senza ombra di dubbio l’esistenza di Dio, può negare l’esistenza della Chiesa.
La Chiesa è un fatto: papa, vescovi, preti, diocesi, parrocchie... La Chiesa è un fatto da duemila anni. Tutti possono constatare l’esistenza della Chiesa. Solo i credenti credono che essa è una, santa, cattolica e apostolica.
Sulla Chiesa piove. Sulla chiesa piovono critiche dall’esterno e dall’interno.
- La chiesa è un ostacolo alla libertà e all’inventiva. In essa è già tutto fatto, tutto scritto; non c’è più nulla da scoprire o da fare.
- È troppo madre. Ci tratta da neonati, da minorenni, o peggio, da minorati.
- È una istituzione d’altri tempi (idee, linguaggio, riti, paludamenti... da medioevo) troppo lontana dal nostro modo di pensare, di sentire, di pregare, di amare.
- È triste e paurosa.
- È giuridica, moralistica, autoritaria, pignola. Cristo ha detto: "Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri" (Gv 13,35) ma io non trovo questo amore nella mia chiesa.
- Si parla molto di Chiesa dei poveri. Sono parole. La Chiesa, sostanzialmente, resta legata ai poteri economici, è sempre dalla parte del potere costituito, anche se repressivo, e contro le rivoluzioni. Cercatela dalla parte dei ricchi e dei potenti.
- Pretende di avere tutta la verità in esclusiva, di sapere tutto e di fare da maestra a tutti. È infallibile come una vecchia zitella che ha sempre ragione.
- Come credere a una comunità i cui appartenenti si combattono reciprocamente proprio in nome della loro fede e della pratica che ne consegue?
- Ecc.
Scrive Gilbert Cesbron: "Parliamo della Chiesa!" quasi alla stregua di come diciamo "la gente" dimenticandoci che siamo anche noi Chiesa. Se la vogliamo mettere sotto accusa, che sui banchi degli accusati non siedano solo vescovi, teologi e liturgisti, ma anche tutti quei "fedeli" che sono così poco fedeli... Dobbiamo ammettere d’aver indotto il mondo a credere che le nostre mani giunte erano il contrario di quelle aperte, di quelle attive, tese.
Se i cristiani avessero tenuto conto del terribile avvertimento di Paolo: "Con Dio non si scherza!", se non avessero così a lungo trescato col denaro, col potere, sarebbero meno contestati, e Cristo con loro. Il fatto che oggi la mappa della cristianità coincida con quella dei paesi opulenti è una prova lampante che l’occidente è fatto per il regno della terra, non per l’altro. Quale umiliazione!.
Tutte le critiche anche asprissime, purché vere, sono una grazia perché invitano la Chiesa a rivedere le sue posizioni, a mettersi nella verità, a ritornare all’originale e all’essenziale.
Cos’è la Chiesa? Chiesa vuol dire "assemblea" o "comunità". Senza voler mettere il papa o il prete fuori dalla Chiesa, dobbiamo dire che loro non sono la Chiesa. Essi sono della Chiesa, vi esercitano un servizio importante, ma non sono la Chiesa.
Ciò che Cristo ha voluto, sostanzialmente, quando ha fondato la Chiesa è: che tutti gli uomini siano "convocati" nell’amore.
Dio è amore. È in se stesso comunità di persone che si amano al punto da costituire un solo Dio. Per questo non dobbiamo cercare la radice della Chiesa in Gesù Cristo, ma ancora più in profondità: nella natura stessa di Dio. La Trinità è Chiesa, assemblea, comunità. La nostra Chiesa è a immagine e somiglianza di quella. "Tutti siano una cosa sola. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi una cosa sola... Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me" (Gv 17,21-23).
Colui che riunisce nell’unità questa umanità dispersa e la lega a sé con un amore sponsale è il Figlio diventato uomo, Cristo Gesù. In questo modo "la Chiesa è Gesù Cristo esistente in forma di comunità" (Dietrich Bonhoeffer).
Se vogliamo andare all’essenziale, alla Chiesa come l’ha voluta Cristo, dobbiamo vederla come l’insieme degli uomini che credono in Gesù Cristo, che sperano la salvezza promessa, che si amano al punto da voler formare una comunità di fratelli, a immagine e somiglianza della Trinità.
La Chiesa infatti ha avuto inizio come un incontro di fratelli, una comunità di fede e di amore, una condivisione in tutto: "Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere... Tutti quelli che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore..." (At 2,42-48).
È certamente questa la Chiesa che Cristo, o meglio, la Trinità, ha voluto.
Dalle pagine degli Atti appena citate, gli apostoli appaiono come i responsabili della comunità: testimoni privilegiati della risurrezione, maestri qualificati dell’evangelizzazione e della catechesi.
Ma non c’erano solo loro quando lo Spirito si posò su ciascuno di loro e tutti furono ripieni di Spirito santo: erano circa centoventi, erano una comunità di fratelli (cfr At 1,15).
Cristo è il centro invisibile di questa comunità e tutti noi siamo "uno" in Cristo Gesù (cfr Gal 3,28). Lui è l’unica vite di cui noi siamo i tralci (cfr. Gv 15). Veramente "la Chiesa è Gesù Cristo che vive in forma di comunità" (Bonhoeffer), costituendo con i cristiani "il Cristo totale, capo e membra" (s. Agostino).
E questo ci porta a comprendere la Chiesa come corpo di Cristo. I cristiani sono membra di Cristo e membra gli uni degli altri. È la stessa realtà sconvolgente espressa con l’immagine della vite e dei tralci: la stessa vita circola nel capo e nelle membra. Ma a questo punto non siamo più a livello d’immagine. "La Chiesa è il corpo di Cristo" significa realmente il corpo personale di Cristo risorto. I fedeli per mezzo della fede e dei sacramenti beneficiano fin d’ora della stessa vita del Risorto per mezzo dello Spirito santo. "Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?... Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito santo che è in voi?" (1Cor 6,15 e 19).
Dio è più realistico di quanto possiamo credere. "Il Padre lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa, la quale, è il suo corpo" (Ef 1,22). La testa e le membra costituiscono certamente un solo corpo e tuttavia la testa è distinta dal corpo e superiore al corpo, pur facendone parte.
Non si tratta di un corpo morale o giuridico come "il corpo diplomatico", ma di un corpo realmente unificato in Gesù Cristo, il corpo personale, reale, fisico, di Cristo (cfr 1Cor 12,12-31).
Come è possibile che la Chiesa rimanga realmente, corporalmente una in se stessa e una con il suo Signore?
Risponde Paolo: "Il calice di benedizione che noi benediciamo (nell’eucaristia) non è forse comunione col sangue di Cristo. E il pane che noi spezziamo (nell’eucaristia) non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane" (1Cor 10,16-17).
La Chiesa, dunque, è il corpo di Cristo mediante il battesimo della fede che ci immerge in lui, e lo ridiventa continuamente mediante l’eucaristia.
Essenza dell’eucaristia è "incorporarci" realmente in Cristo e fra di noi.
Le nostre messe valgono tanto quanto la nostra unità in Cristo e nei fratelli.
Unità non è uniformità; è consonanza non monotonia. Dobbiamo accettare l’altro diverso, non solamente tollerarlo diverso; dobbiamo amarlo diverso. Dialogo sempre; contraddizione a volte; intolleranza mai. "Ciò che mi ha traumatizzato, e profondamente, non è d’essermi imbattuto nel contrasto che accetto sempre, ma nell’odio" (p. Congar).
"Noi crediamo che la Chiesa... è indefettibilmente santa. Infatti Cristo, Figlio di Dio, il quale con il Padre e lo Spirito è proclamato "il solo santo", ha amato la Chiesa come sua sposa e ha dato se stesso per essa, al fine di santificarla, e l’ha unita a sé come suo corpo e l’ha riempita col dono dello Spirito santo per la gloria di Dio" (Conc. Vat. II LG 39).
La Chiesa è il campo privilegiato dell’opera dello Spirito santo nel mondo. In primo piano nella Chiesa, dunque, non viene il volto di noi povera gente che vi ci troviamo riuniti, ma l’opera dello Spirito che ci riunisce e che mantiene la purezza della fede e elimina continuamente le nostre scorie. Il dono di Gesù risorto al mondo è lo Spirito per la remissione dei peccati (Gv 20,19-23).
Gesù ha istituito la Chiesa come forza e luogo per la remissione dei peccati. Non meravigliamoci se troviamo anche dei panni sporchi in questa lavanderia!
Cattolico vuol dire universale. Chiesa cattolica vuol dire "assemblea universale", comunità di tutti gli uomini in Cristo. La Chiesa era già cattolica il giorno di Pentecoste quando i suoi membri erano tutti chiusi fra le mura di una stanza. Dei cristiani deboli compresero che erano cattolici perché portavano nel cuore il segreto della salvezza di tutti e avevano la forza miracolosa di Gesù per realizzarla concretamente.
Oggi tocca a noi. Abbiamo Cristo, pizzico di lievito, capace di fermentare tutta la pasta umana (Mt 13,33). Anche il più scalcinato dei cristiani ha una ghianda in mano. Se la semina, capirà che portava con sé una foresta.
Tu sarai veramente cattolico quando sentirai il mondo intero battere nel tuo cuore di cristiano


LA COMUNIONE DEI SANTI

Dio ha creato solo fratelli senza frontiere, su un pianeta senza frontiere. Tutta l’umanità è un’immensa e unica foresta dove tutti gli alberi hanno la loro radice nel cuore di Dio Trinità.
La comunione dei santi è la ripresa in termini diversi della "santa Chiesa", ma con lo scopo di sottolineare i rapporti che intercorrono fra le membra dell’unico corpo e i tralci dell’unica vite.
La comunione dei santi non è altro che il mistero del corpo totale di Cristo, ma per mettere in risalto i rapporti delle membra fra di loro: condivisione dello stesso nutrimento, complementarietà dei servizi, benessere comune, comune sofferenza, gloria comune. È il principio dei vasi comunicanti. Inseriti tutti in Cristo, per suo mezzo siamo collegati al Padre e collegati per mezzo dello Spirito a tutti i nostri fratelli secondo la preghiera di Gesù: "Tutti siano una cosa sola. Come tu, Padre, sei in me e io in te... Perché siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità" (Gv 17,21-23).
Il termine santo significa "che appartiene a Dio". La Chiesa è un popolo di povera gente più che di eroi, ma è un popolo di santi perché è il popolo di Dio. La Costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II "Lumen Gentium" (Cristo luce delle genti) dichiara che a questa unità cattolica del popolo di Dio sono chiamati tutti gli uomini; a questa unità appartengono sotto diverse forme o sono ordinati sia i fedeIi cattolici e coloro che, comunque, hanno fede in Cristo, sia tutti gli uomini senza eccezione che la grazia di Dio chiama alla salvezza (LG13-16).
Possiamo dire dov’è la Chiesa; non possiamo dire dove non sia. "Appartiene alIa comunione dei santi tutto il bene che si compie nel mondo" (s. Tommaso d’Aquino). "Lo Spirito del Signore riempie l’universo" (Sap 1,7). "La comunione dei santi è quella di tutti gli uomini di buona volontà" (G. Bernanos).
Nella Chiesa c’è comunione di beni. Tutti i cristiani partecipano ai beni di Gesù Cristo, ai beni dei fratelli e a tutto il bene che si compie nel mondo.
Questa comunione si opera mediante i sacramenti della Chiesa che conferiscono la grazia. Nell’antica tradizione della Chiesa, la comunione dei santi, prima di essere la condivisione delle preghiere e delle buone opere delle "sante persone", è la partecipazione alle "cose sante" che si trovano nella Chiesa, a cominciare dai sacramenti.
Come a figli attorno al tavolo di famiglia, i sacramenti spartiscono il "tesoro comune", la presenza attiva del Cristo risorto nelle diverse situazioni del nostro viaggio terreno.
Fanno parte di questo tesoro i sacramenti, la parola di Dio, la liturgia, la preghiera pubblica e personale, le tradizioni dei Padri, gli esempi dei santi e tutto il bene che Dio ha operato in tutti.
Sia ben chiaro: tutto quanto siamo, tutto quanto abbiamo sono cose sante; di esse non siamo proprietari ma "amministratori della multiforme grazia di Dio" (cfr 1Cor 4,1).
Il disegno di Dio creatore per gli uomini è "l’esistenza per gli altri" come la vive ciascuna delle Persone divine. Solo "l’uomo per gli altri" è a immagine e somiglianza di Dio.
Essendo la Chiesa una comunità di peccatori, dobbiamo ammettere che a questa tavola della comunione si siedono molti scrocconi e quanti apportano solo la loro miseria, il loro sudiciume e la loro fame. Ne abbiamo una descrizione nella parabola del banchetto (Lc 14,15-24): la sala è riempita di poveri, di zoppi, di ciechi e di storpi, di accattoni che non hanno nulla da perdere e tutto da guadagnare.
E chi di noi può dire di non essere, in certi momenti, un mendicante e una passività sul bilancio della comunità?
Nella santità nascosta della Chiesa esiste una ricchezza continuamente traboccante, alla quale possono attingere tutti i poveri quali siamo noi.
Non possiamo passare sotto silenzio la comunione con i nostri fratelli che ci hanno preceduto nel segno della fede e dormono il sonno della pace. "La Chiesa... fin dai primi tempi della religione cristiana, ha coltivato con una grande pietà la memoria dei defunti e... ha offerto per loro anche i suoi suffragi" (Conc. Vat. II. LG 50). Ma è una deviazione che si preghi più per i defunti che per i vivi, che si visitino più i cimiteri dove non dimorano i morti che gli ospedali e i ricoveri, dove soffrono i nostri fratelli, che ci si preoccupi più delle indulgenze che delle missioni.


LA REMISSIONE DEI PECCATI

Questo articolo del credo ci rinvia subito e direttamente a un sacramento. La remissione dei peccati rinvia non tanto alla penitenza, alla confessione-assoluzione, quanto al battesimo.
Il credo della messa precisa bene questo punto, facendoci proclamare: Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati.
Il dono pasquale di Gesù al mondo, la missione costitutiva deIla Chiesa risiedono dunque nella remissione dei peccati: un’effusione dello Spirito che fa della comunità dei credenti il luogo e lo strumento della remissione dei peccati, della vita nuova, della vita divina negli uomini redenti; la culla della nuova nascita dell’umanità e del mondo. "Ricevete lo Spirito santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi" (Gv 20,22).
Il battesimo è il punto di partenza della conversione di tutta la vita. Il battesimo rimane il segno costitutivo della vita cristiana. È al battesimo che rinvia immediatamente la nostra fede nella "remissione dei peccati". Il sacramento della confessione-penitenza viene solo come supplenza, come un secondo battesimo, che rinvia al nostro stato di battezzati per consolidarlo, potenziarlo e rinnovarlo.
17.1 Peccato - Peccatore
Leggendo il vangelo di Giovanni (Gv 8,1-11) possiamo cogliere l’atteggiamento di Gesù verso il peccato e verso il peccatore. Gesù puntò il dito verso terra per non alzarlo né contro l’accusata né contro i suoi implacabili accusatori. Gesù li ama tutti, intensamente, singolarmente. E tutto finì con una confessione generale e con un perdono generale. Parliamo dunque di amore.
Dio-Amore vuole vivere con il suo popolo un profondo rapporto d’amore. Il peccato consiste nello spezzare, coscientemente, volutamente, malvagiamente, questo profondo rapporto d’amore. Il peccato è un adulterio, il tradimento di un patto d’amore (cfr Ez 16).
È un rifiuto del Padre, della sua amicizia, della sua familiarità, della dipendenza necessaria che lega i figli al padre (cfr Gen 3).
Vero Padre, Dio ha creato l’uomo per amore, facendolo, come ogni genitore, a sua "immagine e somiglianza". Gli ha comunicato tutti i suoi beni, compresa la vita divina. Il peccato è la pretesa di rompere questo rapporto filiale, di mangiare "dell’albero della conoscenza del bene e del male" (Gen 2,17), cioè la pretesa di non avere nessuno al di sopra di se stesso, d’essere legge a se stesso, di decidere come si vuole su quanto è bene e su quanto è male, allorché il Padre sa di che cosa abbiamo bisogno (cf. Mt 6,32).
Questa legge del Padre non ha nulla che faccia pensare a un imperativo esteriore o a una proibizione arbitraria. È un rapporto d’amore più che di signoria: una legge di amore filiale. È una pazzia separarsi da colui dal quale ci viene ogni cosa. Il peccato è il rifiuto della condizione filiale e della dipendenza di vita e d’amore.
Ed ecco come conseguenza immediata e sommamente deludente la paura di Dio, l’angoscia della colpevolezza. "Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura... e mi sono nascosto" (Gen 3,10). Risultato ancora più lacerante e drammatico, la morte; ci si sente tagliati dall’albero della vita.
La rottura nei confronti del Padre trascina con sé, come in una reazione a catena, la rottura coi fratelli. Spezzata la catena, tutte le perle si sparpagliano e si disperdono.
- È finita la famiglia coniugale: "La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato" (Gen 3,12);
- È finita la famiglia fraterna: "Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise" (Gen 4,8);
- È finita la famiglia sociale: "Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino ma Lamech settantasette" (Gen 4,23-24);
- È finita la famiglia umana (Gen 11, 1-9. La torre di Babele).
Rileggiamo i primi undici capitoli della Genesi: è la triste epopea del "peccato del mondo", d’un mondo in cui l’egoismo degli individui e dei gruppi ha sostituito la legge dell’amore.
Chi pretende di costruire se stesso indipendentemente da Dio, si metterà contro gli altri, strumentalizzerà gli altri, soprattutto i piccoli e i deboli. Il "peccato del mondo" è il peccato di chi abusa della sua forza (religiosa, politica, economica, culturale, fisica, ecc.) per occupare un posto vantaggioso sulle rovine, l’oppressione e lo sfruttamento dei deboli. È questo il peccato che ha ucciso Dio in Gesù Cristo. Tale è il peccato nella rivelazione dell’Antico Testamento: dramma dell’amore, dramma coniugale fra sposi (Dio e il suo popolo), dramma familiare fra Padre e figli.
Gesù dirà la stessa cosa con altre immagini e altri termini. Il peccatore è colui che si soffoca nelle ricchezze, negli affari, nei piaceri di questo mondo al punto di essere attirato più da questi idoli che dagli appelli di Dio (cfr Lc 14,16-20).
Gli invitati al banchetto adducono la scusa d’un terreno da vedere, di buoi da provare, d’una donna da non lasciare sola per una sera.
Falciare un prato, aggiogare un paio di buoi, sposarsi, tutto questo non è cattivo o proibito da nessun comandamento. Il peccato è mettere Dio all’ultimo posto, dopo tutto il resto, anche se vado a messa tutte le domeniche.
Il peccato non è l’agire quotidiano, ma il dimenticare la presenza sconvolgente dell’amore al centro di questa quotidianità; il costruire la nostra vita come se Dio non ci fosse.
La vita di una settimana non è formata da tre quarti d’ora dedicati, in qualche modo, alla messa.
Il peccato è questa mancanza d’attenzione quotidiana all’essenziale, è l’indifferenza alla continua presenza di Dio, è la preferenza accordata a persone e cose che non sono Dio o sono viste fuori dalla visione di Dio e del suo amore. Questa è una vita da adulteri!
Il peccato è anche rifiuto della condizione filiale (cfr Lc 15,11-32). Alla larga dal Padre. E quindi, alla larga anche dal fratello, il più possibile (cfr Lc 16,19-31). Il ricco della parabola, avvolto nella sua porpora e nel suo lusso, si rimpinza, mentre Lazzaro guarda invano alle briciole. Il sacerdote e il levita escono dal tempio e pensano di essere a posto; non è faccenda loro se il ferito sta morendo sul ciglio della strada (cf. Lc 10,30-37).
Dobbiamo rileggere tutto il cap. 7 di Marco. I farisei attribuiscono enorme importanza alle pratiche esteriori, alle tradizioni degli antichi e agli usi legali. Il Signore invece vede la legge e quindi il peccato, nel cuore dell’uomo, nei comportamenti dell’uomo verso i propri fratelli: "Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo. Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo" (Mc 7,20-23).
Infine Gesù annuncia che saremo giudicati sull’amore (cf. Mt 25,31-46).
Concludendo, possiamo dire che non troviamo nel vangelo leggi o proibizioni scritte solamente sulle tavole di pietra o in codici, e imposte dall’esterno. Il peccato è la vioIazione libera e voluta della legge dell’amore iscritta nei cuori, infinitamente più penetrante e più esigente di tutti i codici.
Dio è nemico del peccato, ma non è nemico dei peccatori. Anzi! Gesù ci comanda di amare i nostri nemici perché l’ha fatto lui per primo. I contemporanei di Gesù aspettavano un messia vendicatore di Dio (cfr Mt 3,5-10), ma Giovanni Battista avrà la stessa amara sorpresa di Giona (Gn 4,1-11). Dopo quaranta giorni non fu distrutta Ninive ma Giona!
Gesù venne fra i peccatori, anzi come un peccatore fra gli altri (cfr Mt 3,13-17) e si fece battezzare assieme a loro. Fu questo il primo gesto pubblico del Figlio di Dio: un atteggiamento da peccatore, che lo identifica coi peccatori. Lui e i peccatori sono dalla stessa parte; è con loro, per loro, uno di loro, il primo di loro, perché si assume la responsabilità dei peccati di tutti: ne "risponderà" sulla croce. È lui l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (cfr Gv 1,29). Non è venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori (cfr Mc 2,17).
Ormai in ogni uomo, in ogni gruppo umano dal quale salirà a Dio il grido del peccato, avremo una speciale presenza di Gesù Cristo per far salire più forte e più alto il grido dell’amore. Per questo il nostro mondo di peccato non scoppia, né mai scoppierà sotto la collera di Dio. Invece dell’ira divina è arrivato Gesù, e Gesù vuol dire "Dio salva".
Gesù ama i peccatori, "riceve i peccatori e mangia con loro" (Lc 15,2). "Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo" (Lc 15,1). Li cerca, li trova, e ci invita a far festa e a rallegrarci con lui perché "ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione" (cf. Lc 15).
"Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui" (Gv 3,17).
È questo l’insegnamento della commovente parabola del fico sterile (Lc 13,6-9). Il fico sarà tagliato o no? Sarà l’albero a decidere. Adesso è il tempo dell’amore del vignaiolo per quest’albero inutile. È il tempo della pazienza e della speranza del padrone.
Il vignaiolo Gesù raddoppierà sforzi e grazie. Il Signore "usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi" (2 Pt 3,9).
Il tempo della vita e della storia è un tempo di tregua in cui Dio cerca tutti i modi per conquistarsi il cuore dell’uomo. Dio non salva l’uomo senza di lui e tanto meno contro di lui. Il perdono dei peccati non è un gesto di forza, ma un gesto d’amore liberamente accolto.
La remissione dei peccati non risponde a un pentimento dell’uomo; viene prima. Il figlio è completamente perdonato da sempre, ancora prima di aver abbandonato la casa paterna. In principio c’è il perdono di Dio, senza condizioni. "In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati" (1 Gv 4,10).
"Dite di lui quello che volete, ma io conosco i mancamenti di mio figlio. Non è affatto perché è bravo che io l’amo, ma perché è il mio bambino. Che sapete della tenerezza che può ispirare, voi che avete la pretesa di fare il conto esatto delle sue qualità e dei suoi difetti? Proprio quando lo debbo punire, egli fa una cosa sola con me stesso. Quando lo faccio piangere, il mio cuore piange con lui. Solo io lo posso rimproverare e punire, perché solo chi ama ha il diritto di castigare" (Tagore).
Quindi "credo la remissione dei peccati" gratuita, data in anticipo, definitivamente e non come risposta a un gesto del peccatore.
"Cristo morì per gli empi... Dio dimostra il suo amore verso di noi, perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi" (Rm 5,6-8).
Ci eravamo fabbricati un falso Dio incapace di fare per primo quello che ci chiede: presentare l’altra guancia, perdonare ai nemici, amare senza essere amato, perdonare "settanta volte sette" cioè sempre. Gesù ci grida: "Amate i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro..." (cfr Lc 6,27-38).
Dunque "credo la remissione dei peccati" data prima di ogni mio pentimento, incondizionatamente. Credo che i peccati sono perdonati.
Per perdonare basta Dio: egli è Amore. Ma per riconciliarsi bisogna essere in due. Il Padre potrà abbracciare il figlio, soltanto se questi torna a lui liberamente.
Chi ama di vero amore sa trovare molte strade per arrivare al cuore della persona amata. L’ostinazione di Dio nell’amare e nel perdonare non si lascia battere dall’amore umano, fosse pure grandissimo. "Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati" (1Tm 2,4); "Dio ha tanto amato il mondo... perché il mondo sia salvato" (Gv 3,16-17). Queste e altre parole di Dio sparse abbondantemente nel libro sacro dovrebbero martellarci la mente e cantarci dentro il cuore giorno e notte. Non incapsuliamo Gesù Cristo, la potenza del suo sangue "versato per tutti" e la forza divinizzante della sua risurrezione nei nostri misurini di praticanti gretti. Il male dell’uomo è uno solo: non sa amare. Permettiamo al buon Dio di essere il buon Dio! Non siamo invidiosi perché lui è buono! La sua bontà va oltre la giustizia senza tuttavia ledere la giustizia (cfr Mt 20,1-16).
I sacramenti del battesimo e della riconciliazione sono i mezzi privilegiati della remissione dei peccati. L’unzione degli infermi è un sacramento per la remissione dei peccati (Gc 5,15).
L’eucarestia - a condizione che vi si acceda in buona fede e non in situazione di sacrilegio - rimette i peccati: la comunione è il culmine della riconciliazione con Dio e con la comunità.
La Chiesa, assemblea dei cristiani, ossia ogni gruppo di cristiani, ogni famiglia, è luogo di perdono e di remissione dei peccati.
Ogni bene che è vissuto nella Chiesa è remissione dei peccati: l’amore e il servizio, la preghiera e il lavoro, il sorriso e le lacrime, la sofferenza e la vecchiaia, la giustizia e la carità, la penitenza e l’azione di grazie, la vita e la morte, tutto. La Chiesa è un immenso inceneritore dei rifiuti, delle debolezze e dei peccati quotidiani; un depuratore sempre in attività; una lavanderia provvista di attrezzature modernissime e del detersivo che lava così bianco che più bianco non si può: l’amore di Dio, lo Spirito santo (cfr Gv 20,22-23; Sal 50 o 51).
17.2 Credo la remissione quotidiana delle colpe quotidiane, nella Chiesa
I sacramenti sono mezzi privilegiati per la remissione dei peccati, ma non sono gli unici! Ogni bene vissuto nella Chiesa è remissione dei peccati:
- La carità: "La carità copre una moltitudine di peccati" (1Pt 4,8).
- L’elemosina: "L’elemosina espia i peccati". (Sir 3,33).
- Le lacrime: "Una donna si rannicchiò piangendo ai piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime..." (cf. Lc 7,36-50).
- La manifestazione delle colpe a Dio: "Ti ho manifestato il mio peccato, non ho tenuto nascosto il mio errore. Ho detto: ‘Confesserò al Signore le mie colpe’ e tu hai rimesso la malizia del mio peccato" (Sal 32,5).
- L’afflizione del cuore e del corpo: "Vedi la mia miseria e la mia pena e perdona tutti i miei peccati" (Sal 25,18).
- L’emendamento della vita: "Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova". "Su, venite e discutiamo" dice il Signore. "Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana" (Is 1,16-18).
- L’intercessione dei santi (i fratelli cristiani): "Se uno vede il proprio fratello commettere un peccato che non conduce alla morte, preghi, e Dio gli darà la vita" (1Gv 5,16). "La preghiera fatta con fede salverà il malato: Il Signore lo rialzerà e, se ha commesso peccati, gli saranno perdonati" (Gc 5,15). La santa madre Chiesa ci insegna a pregare così: "Supplico... voi, fratelli, di pregare per me il Signore Dio nostro".
- Il perdono delle colpe: "Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi" (Mt 6,14).
- La conversione di un peccatore: "Chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore, salverà la sua anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati" (Gc 5,20).
Ciò che diciamo per i cristiani, dentro la  Chiesa vale, in modo incosciente, incompleto, e tuttavia reale e efficace, anche per i non cristiani. Dio vuole la loro salvezza. Gesù è morto e risorto anche per loro. Il Figlio di Dio ha fatto propria questa condizione umana concreta, quella vissuta da ogni uomo in ogni situazione, a ogni latitudine dentro o fuori dalla sua Chiesa visibile. Ogni uomo è figlio di Dio, fratello di Gesù e fratello nostro: Cristo e l’uomo sono un tutt’uno! Ogni uomo, con assoluta certezza, incontra la grazia del perdono, della crescita, della salvezza, della vita di figlio di Dio in Gesù Cristo, anche se milita, in buona fede, contro la Chiesa, Dio e Cristo. Chiunque ama e serve l’uomo, ama e serve Cristo. E Cristo ha detto: "Se uno mi ama... il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui" (Gv 14,23). Impossibile affermare con forza maggiore la remissione dei peccati per chiunque ama. L’amore, ogni amore degno di questo nome, opera, produce la remissione dei peccati perché "l’amore è da Dio; chiunque ama, è generato da Dio e conosce Dio" (1Gv 4,7).
17.3 Le indulgenze
Le indulgenze sono un’applicazione della comunione dei santi alla remissione dei peccati.
Nella Chiesa primitiva, le persecuzioni provocarono l’apostasia dei deboli, che, davanti alla tortura, rinnegarono Cristo. Questi apostati (cui furono aggiunti presto gli omicidi e gli adulteri) erano "scomunicati" e sottomessi, per tutta la vita, a pubblica penitenza: un cilicio come vestito, capelli tagliati, astinenza perpetua dalla carne, e, se sposati, dai rapporti coniugali; proibizione del servizio militare, di funzioni pubbliche, d’ogni commercio, ecc.
Avveniva allora che certi martiri, mentre attendevano in prigione la loro esecuzione, o certi confessori della fede sopravvissuti alla tortura, dessero agli apostati pentiti delle "lettere di pace", dove si intercedeva presso il vescovo perché, tenuto conto delle sofferenze dei martiri, se ne cedesse il "merito" agli apostati pentiti, scontando la loro penitenza. Scrive s. Cipriano vescovo di Cartagine e martire (+14 settembre 258): "Crediamo che i meriti dei martiri abbiano un grande potere presso il giudice sovrano... Egli può ratificare quanto i martiri hanno domandato e i vescovi fatto".
La penitenza pubblica cadde in disuso fin dal IV secolo.
Nel VII secolo i monaci irlandesi reintrodussero la penitenza sacramentale, nella forma di "penitenza tariffata". I peccati gravi danno luogo a una penitenza fissata da una tariffa ufficiale (ad esempio: 100 giorni, 1 anno, 7 anni, 7 quarantene (= quaresime)... di digiuno a pane e acqua).
In mancanza delle "lettere di pace" dei martiri, si possono dare delle lettere di credito per la costruzione di Chiese, di monasteri, di ospedali, di ponti, delle dighe in Olanda, o per la redenzione degli schiavi. Si apriva così la porta alle buone opere, ma anche al commercio e alle speculazioni. Ciò accadde non di rado dal X al XVI secolo: speculazione dei potenti e superstizione della povera gente. Nel 1561 il Concilio di Trento soppresse i collettori delle offerte indulgenziate. Nel 1569 Pio V stabilì la gratuità delle indulgenze: l’elemosina fu sostituita da una preghiera, da una visita in chiesa o da altro.
Il 1° gennaio 1967 Paolo VI riformò le indulgenze. Sono questi i due punti essenziali:
- È abolito il tariffario delle indulgenze parziali.
- Per ricevere l’indulgenza plenaria, oltre alla confessione, alla comunione e alla preghiera secondo le intenzioni del papa, è necessario "che sia escluso ogni attaccamento a qualsiasi peccato anche veniale".


LA RISURREZIONE DELLA CARNE

La fine del simbolo ci invita a fissare il nostro sguardo nel futuro dell’uomo e del mondo. Che cosa attende l’uomo e il mondo? Dove li conduce Dio? Quale sorpresa ci riserva Dio? Qual è la nostra speranza?
La seconda parte del Credo ci aveva già fornito un inizio di risposta: Credo in Gesù Cristo... risorto da morte, salito al cielo da dove verrà a giudicare.
Questa terza parte del Credo si radica sulla seconda. La nostra speranza cristiana si fonda sull’avventura di Gesù: come lui così anche noi.
La terza parte del simbolo potrebbe essere sintetizzata così: Credo nello Spirito Santo, dentro la santa Chiesa, per la risurrezione della carne.
18.1 Non dimentichiamo lo Spirito Santo
Tocchiamo a questo punto il culmine dell’opera dello Spirito Santo nella santa Chiesa cattolica: "Se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi" (Rm 8,11).
Ora che Gesù è risorto e salito al cielo, l’umanità presente è entrata nel futuro attraverso questo nostro fratello con cui siamo uno. Non sarebbe esatto affermare che i precedenti articoli del Credo parlavano di questo mondo, di questa vita, mentre gli ultimi due ci parlerebbero dell’altro mondo, dell’altra vita. Non ci sono due mondi o due vite. Non c’è da una parte il tempo, che scorre, passa e si degrada; e dall’altra, l’eternità, stabile e di valore infinito e definitivo. C’è solo un mondo, che sta diventando diverso sotto la signoria di Gesù risorto. C’è una sola vita, che sta diventando diversa mediante la fede e il battesimo; non c’è un’altra vita. L’uomo adulto non è una persona distinta dal bambino che era: è diverso da prima, ma è sempre lui.
Risurrezione, vita eterna, mondo nuovo sono realtà fin d’ora già delineate e tuttavia rimangono per noi profondamente misteriose. Di fronte al nostro futuro eterno siamo come il bambino ancora nel grembo materno: non può farsi la minima idea della sua vita di domani quando vedrà la luce, camminerà, crescerà, parlerà, occuperà un posto nel mondo.
Il nostro futuro eterno è, di per sé, indefinibile. "Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore d’uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito" (1Cor 2,9-10).
L’ignoranza sull’al di là è enorme ora; immaginiamoci quanto lo fosse prima di Cristo. Non dobbiamo quindi meravigliarci per l’accento posto dai salmisti, dai patriarchi, dai profeti sui valori temporali: ricchezza materiale, longevità, fecondità, numerosa discendenza, sopravvivenza della fama e della gloria, vendetta immediata. Non si aspettavano ricompensa o castigo dopo la morte. Sembra far eccezione il libro di Giobbe (V secolo prima di Cristo): "Io lo so che il mio vendicatore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, senza carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, e i miei occhi lo contempleranno non da straniero" (Gb 19,25-27).
Ma questa intuizione vaga e fugace viene contraddetta più volte. Ne ricordiamo una, per esempio: "Anche per l’albero c’è speranza: se viene tagliato, ancora ributta e i suoi germogli non cessano di crescere... L’uomo invece, se muore giace inerte, quando il mortale spira, dov’è? Potranno sparire le acque del mare e i fiumi prosciugarsi e disseccarsi, ma l’uomo che giace più non si sveglierà, né più si desterà dal suo sonno" (Gb 14,7-12).
Nel 331 prima di Cristo, Alessandro Magno introdusse in Palestina la cultura greca. Così la filosofia greca colorò gli ultimi libri della Bibbia, specialmente il libro della Sapienza. L’autore di questo libro visse ad Alessandria d’Egitto, una cinquantina d’anni prima di Cristo. È tutto impregnato di pensiero greco. Questo libro ispirato ci dà una chiara e nuova rivelazione della sopravvivenza: "Dicono tra loro sragionando: Non si conosce nessuno che liberi dagli inferi. Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati... Il corpo diventerà cenere e lo spirito si dissiperà come aria leggera... Non conoscono i segreti di Dio... Sì, Dio ha creato l’uomo per l’immortalità" (Sap 2,1-23). "I giusti vivono per sempre, la loro ricompensa è presso il Signore e l’Altissimo ha cura di loro. Per questo riceveranno una magnifica corona regale, un bel diadema dalla mano del Signore" (Sap 5,15-16).
Lo Spirito Santo quindi afferma la sopravvivenza, l’immortalità e l’eternità beata.
Nell’Antico Testamento l’idea di risurrezione è tardiva quasi come quella di immortalità. Essa è espressa chiaramente per la prima volta solo due secoli prima di Cristo al cap. 12 del libro di Daniele: "Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna... Tu vai pure alla tua fine e riposa: ti alzerai per la tua sorte alla fine dei giorni" (Dn 12,2 e 13).
Dopo Daniele viene la testimonianza del secondo libro dei Maccabei al cap. 7. Siamo in un periodo di violente persecuzioni scatenate contro i giudei da Antioco Epifane. Ecco alcune frasi significative: "Il re del mondo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna... Da Dio ho queste membra e, per le sue leggi, le disprezzo, ma da lui spero di riaverle di nuovo... È bello morire a causa degli uomini, per attendere da Dio l’adempimento delle speranze d’essere da lui di nuovo risuscitati... Senza dubbio il creatore del mondo... per la sua misericordia vi restituirà di nuovo lo spirito e la vita..." (2Mac 7).
Questa è la speranza-certezza dei perseguitati d’Israele nei due secoli che precedettero la venuta di Gesù.
Nel Nuovo Testamento è affermato chiaramente: "Colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi" (Rm 8,11). Il nostro soffio vitale si esaurisce su questa riva della vita. È necessario che lo Spirito Santo venga a sostituire il nostro principio vitale umano e, quindi, mortale, in modo che lo Spirito diventi veramente il nostro soffio vitale personale e definitivo. Cristo è "il primogenito di coloro che risuscitano dai morti" (Col 1,18), il "primo fra i risorti da morte" (At 26,23) "l’autore della vita" (At 3,15). "Come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo" (1Cor 15,22).
Risurrezione della carne significa risurrezione dell’uomo: nella Bibbia carne significa la persona umana nella sua condizione terrena. La risurrezione della carne è il risorgere dell’essere umano pieno, né solo materia senza spirito, né solo spirito senza materia.
La "risurrezione" richiede che lo stesso essere, la stessa carne animata, lo stesso corpo vivente che è "sorto" una prima volta nascendo alla vita presente, risorga in una vita rinnovata. È una verità di fede: "Tutti risorgeranno con gli stessi corpi che hanno ora" (Concilio ecumenico Lateranense IV, anno 1215). "Crediamo alla vera risurrezione di questa carne che ora è la nostra" (Concilio II di Lione, anno1274). La morte non ha nulla della manovra dei banditi che abbandonano l’auto usata per la rapina e trasbordano su un’altra per far perdere le tracce.
Leggendo i racconti evangelici della risurrezione di Cristo ci colpisce un dato innegabile. Il corpo di Gesù risorto è veramente il corpo che egli aveva prima di morire, con il segno dei chiodi e del colpo di lancia al cuore (cf. Gv 20,20-28). Certamente si trova in un’altra condizione, capace di muoversi come vuole, senza nessun limite di spazio e di peso. Ma non è il corpo di un fantasma; esiste una continuità fra il suo stato attuale e quello di prima. Gesù rimane lo stesso. Ci tiene a dimostrare che non è cambiato, che non ha solamente un corpo che si può toccare, ma anche i gesti familiari di prima: "Essi riferirono come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane" (Lc 24,35). Gesù rimane l’uomo che era.
Per questo Gesù risorto può dire ai suoi discepoli: «"Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho". Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse: "Avete qui qualche cosa da mangiare?". Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro»(Lc 24,39-42).
Un tempo i teologi sudavano invano per risolvere il problema della risurrezione di coloro che erano stati mangiati dai cannibali o dai pesci che a loro volta erano mangiati dagli uomini. Le scienze biologiche moderne ci insegnano che l’identità del corpo non è legata a queste o a quelle parti di materia. L’organismo rinnova continuamente il suo materiale molecolare. Si pensa che bastino sei anni circa, perché tutte le cellule del corpo umano, anche quelle delle ossa, siano sostituite. Le molecole passano, la materia viene sostituita come le acque del fiume; ma il mio corpo rimane, come il Tevere o il Po.
La risurrezione della carne, che noi attendiamo, sarà una trasformazione misteriosa di tutto l’uomo, facendo dischiudere una realtà diversa dal suo corpo terreno, quanto il fiore o il frutto è diverso dal seme; sarà tuttavia il compimento, in pienezza, di tutto quanto egli è stato. «Qualcuno dirà: Come risuscitano i morti? Con quale corpo verranno?" Stolto! Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore; e quello che semini non è il corpo che nascerà... Questo vi dico, o fratelli: la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che è corruttibile può ereditare l’incorruttibilità. Ecco io vi annunzio un mistero: non tutti, certo, moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono della tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati. È necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta d’incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta d’immortalità»(1Cor 15,35-53).
"Si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale" (1Cor 15,44). "Corpo spirituale" non è una contraddizione in termini! Significa: corpo totalmente al servizio dello Spirito, liberato dallo spazio, dal tempo, dalla fatica, dal cibo, dall’invecchiamento, ecc., stupendo strumento di comunione e d’amore totale; il cui principio vitale non è più biologico, ma è costituito dallo stesso Spirito Santo.
Quando avverrà questa risurrezione? Per tutti alla fine del mondo o per ciascuno, subito dopo la morte?
Gesù colloca la risurrezione "nell’ultimo giorno" (Gv 6,39- 40.45.54). A chi pensa che la risurrezione è immediata si potrebbe obiettare che il "privilegio" di Maria assunta al cielo in anima e corpo, non può consistere nell’essere stata trattata come tutti! Non possiamo saltare a piè pari il Credo: "Aspetto la risurrezione della carne". Aspetteremo gli altri, tutti gli altri, perché la salvezza è collettiva (cfr 1Ts 4,13-18).
S. Paolo afferma che colui che è unito a Cristo è già risorto con lui e assiso con lui nei cieli: "Con lui infatti siete stati sepolti insieme nel battesimo, in lui anche siete stati insieme risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti" (Col 2,12).
"Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli in Cristo Gesù" (Ef 2,8). Ma questa vita si manifesterà solo alla venuta finale di Cristo: "Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria" (Col 3,3-4).
La nostra partecipazione alla risurrezione di Cristo passa attraverso tre tappe: iniziata nel battesimo, compie un grande passo al momento della morte, ma sarà pienamente manifestata solo alla fine: "Verrà l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno: quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna" (Gv 5,28-29).
In attesa che la realtà della risurrezione finale risolva gli enigmi biblici e teologici, premuriamoci di vivere in modo degno per trovarci collocati "alla sua destra" (Mt 25,33) "per una risurrezione di vita" (Gv 5,29).


LA VITA ETERNA. AMEN

I tre quarti dei non credenti, per quanto saggi e sapienti, pensano alla morte come la fine di tutto. Né scienziati né filosofi possono affermare la vita eterna. Ma il cristiano lo può, partendo dalla fede in Dio e in Gesù Cristo.
Il nostro Dio è il Dio vivente perché la vera vita è amore e "Dio è amore" (1Gv 4,8). Il Dio vivente è "fonte della vita" (Sal 36,10). Ogni essere e ogni vita scaturiscono da lui nella continua successione degli istanti, come il fiume dalla sua sorgente (Sal 104,10-15). Ma Dio trasmette la vita all’uomo con un soffio personalissimo, per farne un vivente a sua immagine e somiglianza (Gen 2,7). Dio "non gode della morte di chi muore" (Ez 18,32); proibisce l’omicidio, anche quello di Caino, l’assassino del proprio fratello (Gen 4,11-15). La morte infatti è l’eliminazione di tutto. Attraverso tutto l’Antico Testamento viene proclamata questa volontà di vita come fiamma di Dio nel cuore dell’uomo. Il giudeo credeva ingenuamente che il giusto vivesse più a lungo del peccatore (Pr 3,1-2). Un secolo e mezzo prima di Cristo incomincia ad affermarsi la speranza della vita eterna.
Questa vita eterna risiede in Gesù Cristo. "Dio ci ha dato la sua vita eterna e questa vita è nel suo Figlio. Chi ha il Figlio ha la vita; chi non ha il Figlio di Dio, non ha la vita. Questo vi ho scritto perché sappiate che possedete la vita eterna, voi che credete nel nome del Figlio di Dio" (1Gv 5,11-13).
Gesù ha detto: "Io sono la vita" (Gv 14,6); "Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno" (Gv 11,25-26).
Infatti da sempre "In lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini" (Gv 1,4) ed è venuto perché gli uomini "abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza" (Gv 10,10) e dà loro la vita eterna e non andranno mai perduti e nessuno li rapirà dalla sua mano (cf. Gv 10,28).
Gesù è "il Verbo della vita" (1Gv 1,1), "l’albero della vita" (Ap 22,2), "il pane della vita" (Gv 6,35), "la luce della vita" (Gv 8,12).
"Sappiamo che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l’intelligenza per conoscere il vero Dio. E noi siamo nel vero Dio e nel Figlio suo Gesù Cristo: egli è il vero Dio e la vita eterna" (1Gv 5,20).
La vita eterna non è una vita biologica, com’era prima della morte, con le sue funzioni respiratoria, circolatoria, ecc. "Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo" (Gv 17,3).
"Che conoscano te". Non pensiamo a una pura conoscenza intellettuale fatta di nozioni o di termini scientifici. Si tratta di una intimità d’amore in cui due esseri ne formano uno solo, come nel ferro incandescente, il ferro e il fuoco formano una sola cosa. Balbettii su un mistero!
"Noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è" (1Gv 3,2).
Ciò significa che "la vita eterna" è già cominciata: "Noi fin d’ora siamo figli di Dio". La vita eterna cammina sulle nostre strade, nel nostro mondo, nutrita di Eucaristia: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno" (Gv 6,54).
Notiamo che il vangelo dice ha, non avrà.
La vita eterna in noi è precisamente il nostro rapporto con questo Dio vivente. Per sempre siamo figli di Dio, per sempre siamo con lui; lui in noi e noi in lui, divinizzati: dinamismo, gioia eternamente crescente, festa immensa e senza fine, vita umana e divina potenziate all’infinito. "Come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste" (1Cor 15,49), di Gesù, in modo da poter dire con Paolo: "Per me il vivere è Cristo" (Fil 1,21).
Questa vita eterna ora la viviamo allo stato embrionale, come "vita nascosta con Cristo in Dio" (cfr Col 3,3). Quando si manifesterà Cristo, la nostra vita, allora anche noi saremo manifestati con lui nella gloria (cfr Col 3,4).
19.1 Il cielo
Tornando da un funerale spesso si dicono cose sublimi e verità indiscutibili sul conto del morto: "Ora sta meglio di noi! Se n’è andato in un mondo migliore!". Ma nessuno vorrebbe essere al suo posto; nessuno ha fretta di entrare in questo mondo cosiddetto migliore. Figuratevi! Il caro estinto ha perso tutto, è sotto il torchio del giudizio terribile di Dio, forse si trova già all’inferno, sicuramente dovrà fare un lungo purgatorio, chissà quando arriverà in cielo, in un cielo dove nessuno ha veramente voglia di andare! Quale cielo ci è stato presentato fin dall’infanzia? Cielo di troni fissi di fronte all’immutabile triangolo della Trinità; cielo di santi che cantano inni, con il loro piatto (aureola) che sta ben dritto dietro alla testa; cielo di angeli alati; cielo di anime disincarnate, ecc... Insomma un cielo di gente veramente annoiata e noiosa, che ci fa amare di più la nostra bella "valle di lacrime" nelle quali, oltretutto, sappiamo nuotare egregiamente e... stare a galla.
Quale meraviglia, allora, se i cristiani vivono in questo mondo come coloro che non hanno speranza? Certo è difficile raffigurarci il cielo; ma questa è una ragione in più per riprendere continuamente i dati biblici che Dio ci ha rivelato e rispolverare le idee e le immagini.
La Scrittura è precisa sull’inferno, ma anche straordinariamente sobria. I predicatori, invece, sono andati a gara per aggiungere cose su cose, con gusto sadico. Il cielo, invece, li ha lasciati troppo spesso senza parole, senza ispirazione, senza fantasia, quando proprio la rivelazione ne è ricca ed eloquente. È più facile mettere addosso paura che trasfondere gioia!
Il nostro Dio non è il Dio della paura ma della gioia, il Dio dell’amore! Il vangelo è la "buona novella" della felicità.
La Bibbia, pur affermando che non è possibile descrivere il mondo della gloria, non esita a richiamarlo partendo dalle più semplici realtà umane. Essa parla all’uomo terreno e al suo cuore di carne usando un linguaggio che l’uomo possa capire.
Il cielo non sarà la negazione dell’uomo terreno, ma il suo compimento; non sopprimerà la gioia umana, ma la perfezionerà superandola divinamente. Presentarci un cielo che non rispondesse ai nostri desideri reali, sarebbe come presentare a un cane un capolavoro letterario o una salsiccia di plastica.
Per questa ragione molti cristiani non comprendono e non condividono l’impazienza di Paolo: "Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa debba scegliere. Sono messo alle strette infatti tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d’altra parte, è necessario per voi che io rimanga nella carne" (Fil 1,21-24).
"Essere con Cristo". "Essere con" è il sogno dell’amore: speranza degli esiliati, impazienza dei fidanzati, gioia profonda di ogni ritorno. Ma è necessario essere presi da amore e da grande amicizia. San Paolo era stato conquistato da Cristo. Per questo era impaziente di correre incontro a Cristo per non esserne più separato. Il cielo di san Paolo è il cielo dell’amore di Cristo, dell’amore appagato.
Ma Gesù non può far dimenticare il Padre e lo Spirito Santo. Paolo parlando di Dio Trinità dice: "Vedremo a faccia a faccia" (1Cor 13,12), e san Giovanni aggiunge: "Lo vedremo così come egli è" (1Gv 3,2).
Noi sappiamo che questo volto è innanzitutto il volto dell’amore. Morendo cadremo nelle braccia del Padre, del Fratello e dell’Amico. Lo conosceremo così come egli è attraverso un possesso reciproco totale! Lo conosceremo come il ferro conosce il fuoco che lo penetra, come la spugna conosce l’acqua nell’immensità di un oceano senza limiti. L’uomo non potrà mai stancarsi di Dio e della sua intimità ineffabile.
La vita eterna è paragonata a un banchetto d’amicizia (Lc 12,37), a una festa di nozze (Mt 22,1-14). Sarà il trionfo eterno di una moltitudine eterna di salvati (Ap 7). Sarà la definitiva presa di possesso del regno preparato per noi fin dalla fondazione del mondo (Mt 25,31-46; Ap 5,10; 22,5; 2Tm 2,12). Regno che appartiene a coloro che vivono secondo lo spirito delle beatitudini (Mt 5.6.7; Lc 6,20-49). "E poi, secondo la promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova nei quali avrà stabile dimora la giustizia" (2 Pt 3,13).
S. Teresa d’Avila, a ogni ora che suonava, provava un sussulto di gioia: "Eccoci più vicini al cielo di un’ora!".
19.2 Le pene eterne
Il nostro Credo non ha un articolo per affermare: "Credo l’inferno, la morte eterna", ma "credo la vita eterna". In altri termini: credo alIa salvezza che ci strappa dal peccato e dall’inferno, credo alla salvezza che ci fa figli di Dio ed eredi della vita eterna. Il cielo, e non l’inferno, è voluto da Dio. Perché il cielo è Dio stesso; mentre l’inferno è l’assenza di Dio.
L’inferno non può costituire da solo l’argomento di una predica, diversamente rischierà d’apparire come una creazione dell’uomo, che sarebbe mostruoso imputare a un Dio di bontà, a un Dio-Amore.
Le immagini bibliche dell’inferno sono tratte dalla storia o dalla vita quotidiana del popolo d’Israele
Immagini di fuoco. La pioggia di zolfo e di fuoco su Sodoma e Gomorra: terra maledetta, "terra bruciata" dalla quale sale un fumo "come il fumo di una fornace" (Gen 19,23-29); oppure "lo stagno di fuoco ardente di zolfo" (Ap 19,20; 20,10 e 15; 21,8; ecc.).
- La Geenna, un sinistro vallone a sud di Gerusalemme, la discarica dei rifiuti della città, dove il fumo maleodorante di un "fuoco continuo" s’innalza nell’aria giorno e notte.
- Il fuoco che distrugge la paglia, la pula, i rami tagliati, gli alberi sterili, ammassati sul limitare del campo (Mt 3,10-12; 7,19; 13,40; Lc 3,9; Gv 15,6).
Immagini di tenebre. Questa contradditorietà tra fuoco-luce e tenebre ci mette in guardia dal prendere i simboli per realtà materiali. Sono immagini per descrivere una situazione di distruzione, di desolazione, di tormento, di solitudine, di morte.
Il vangelo ci parla di "tenebre esteriori" (Mt 8,12), che stanno fuori dal regno, ossia fuori dal "paese" in cui l’amore è sovrano, fuori dall’alleanza e dalla festa, fuori dalle nozze, fuori dalla famiglia e dalla sua intimità, fuori dall’unico banchetto della vita (Mt 22,1-14).
Questa immagine raccapricciante di "tenebre esteriori dove sarà pianto e stridore di denti" costituisce l’opposizione più eloquente alla ricca simbologia del cielo. Nella casa del Padre abbiamo luci, musica, danze, amore, festa, incontro, vita esuberante e felice. All’esterno la fredda notte, il vagare solitario e senza meta, pianti di disperazione e di rabbia, pianti inutili e rabbia impotente di chi ha rifiutato la luce e l’amore. Cristo è la vite, il pane della vita, la via, la porta, la luce e il solo volto che ci svela il Padre, l’alfa e l’omega, il tutto: staccarsi da lui è la perdita assoluta di se stessi per diventare un grido inutile e un insulto inascoltato. Sembrano intollerabili e assurde quelle parole pronunciate da Gesù, ma sono divinamente vere: "Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e i suoi angeli" (Mt 25,41).
L’esistenza dell’inferno è indispensabile. Senza di esso il cielo non sarebbe altro che un campo di concentramento dove si è obbligati ad andare. Il cielo è il "luogo" dove si ama e, siccome non esiste amore senza libertà, in cielo ci si va soltanto liberamente. L’esistenza dell’inferno è l’espressione del rispetto di Dio per la nostra libertà. Dio non costringerà mai nessuno ad amarlo. L’inferno è il rifugio del rifiuto.
Sul dogma dell’inferno la Chiesa ha definito la sua fede:
1 - L’inferno esiste, come situazione "preparata per il diavolo e i suoi angeli" e nella quale l’uomo può cadere.
2 - L’ipotetico dannato vi cade subito dopo la morte.
3 - L’inferno è eterno.
Molti rifiutano Dio a causa dell’inferno e pongono un dilemma apparentemente insolubile: o un Dio-Amore che esclude l’inferno o un inferno che esclude Dio. E ancora: se Dio è amore, l’inferno è impensabile, assurdo. Che significato potrebbe avere, nel regno di un siffatto Dio, la permanenza eterna di una infelicità assoluta di uomini risorti? La chiave per la soluzione di questo problema, come di tutti i problemi della fede, è il dogma principale: "Dio e amore". Esiste l’inferno solo in questa luce.
I testi della Scrittura non possono contraddire l’affermazione dell’amore assoluto, universale e perpetuo di Dio per ogni uomo, senza mandare in pezzi il vangelo, Cristo e lo stesso Dio.
Dio non vuole l’inferno. Ma Dio è talmente signore dell’amore che può dare agli angeli e agli uomini una vera libertà, anche quella di rifiutarlo. L’uomo può ostinarsi a non amare. L’idea dell’inferno mette in evidenza esattamente questa possibilità. "Il dogma dell’inferno significa che la vita dell’uomo è sotto la minaccia della possibilità reale d’un fallimento eterno, giacché l’uomo può disporre liberamente di sé e può quindi rifiutarsi in piena libertà a Dio. Questa possibilità per l’uomo si concretizza realmente e in quali proporzioni? Per rispondere a questi interrogativi, non possiamo appellarci alla rivelazione né alla decisione del magistero della Chiesa" (Karl Rahner).
Da una parte, la realtà indiscutibile dell’amore di Dio e della libertà dell’uomo non ci permette di affermare che non ci sono dei dannati. Dall’altra, l’esistenza anche di un solo dannato ci appare come uno scandalo, e per Dio più ancora che per noi. In realtà, fra l’inferno possibile e quello effettivo, Dio s’interpone con tutta la potenza del suo amore, con la potenza della morte e della risurrezione di Cristo.
Rileggiamo, più col cuore che con gli occhi, questi testi del Nuovo Testamento: "Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui" (Gv 3,17); "Non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo" (Gv 12,47); "Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori" (Mt 9,13); "Mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi" (Rm 5,6); "Dio dimostra il suo amore per noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi" (Rm 5,8).
Dio ci comanda di perdonare "settanta volte sette" ossia all’infinito (Mt 18,22), di porgere l’altra guancia (Lc 6,29) perché egli per primo ha fatto così. Un uomo diventa ateo quando gli viene presentato un Dio meno buono di lui. E ne ha tutte le ragioni. Dio non cessa di essere Amore perché, per una inaudita aberrazione, alcune creature rifiutano che egli sia tale. Dio è amore che infinitamente si dona anche se l’uomo fa di lui l’amore rinnegato per sempre. Il rifiuto di essere amati non intacca in Dio il potere di amare; può minare l’amore nei suoi effetti, ma non nella sua sorgente.
L’inferno, come rifiuto assoluto d’amare, esiste sempre da una sola parte: dalla parte di chi lo crea continuamente per se stesso. È divinamente impossibile che Dio possa minimamente cooperare a questa aberrazione. Se quindi ci può essere un contraccolpo in Dio dall’esistenza dell’inferno, tale contraccolpo può essere solo di dolore e di sofferenza infinita e non di compiacimento o di vendetta e di rivalsa per il suo amore rifiutato e tradito. Il dolore di Dio è qui insondabile quanto il suo amore.
Il nostro dolore di fronte all’inferno, non è che un’eco del suo stesso dolore; il nostro scandalo non è che una pallidissima immagine del suo. L’inferno è in Dio l’inguaribile ferita che autentica per sempre l’amore infinito.
19.3 Cieli nuovi e terra nuova
"Io vi scongiuro, fratelli miei, restate fedeli alla terra e non prestate fede a coloro che ci parlano di speranze ultraterrene! Sono avvelenatori, lo sappiano o no. Sono spregiatori della vita, moribondi e avvelenati loro stessi, di cui la terra è stanca: vadano dove vogliono!" (F. Nietzsche).
Gli atei dicono ai credenti: "Con la vostra "vita eterna" voi smobilitate gli uomini dalle loro lotte per la vita di questo mondo! Invece di occuparvi di una ipotetica "terra nuova" occupatevi piuttosto della nostra terra reale per renderla più abitabile!".
Jean-Jacques Rousseau nell’ultimo capitolo del suo "Contratto sociale" fa dell’ironia su questo punto: "Il cristianesimo è una religione tutta spirituale, preoccupata solo delle cose del cielo: la patria del cristiano non è di questo mondo. Certo, compie il suo dovere, ma lo compie con una profonda indifferenza sulla buona riuscita o meno della sua opera. Purché non abbia nulla da rimproverarsi, non gli importa molto che tutto vada bene o male quaggiù... La cosa essenziale è d’andare in paradiso; la rassegnazione è un mezzo ulteriore per raggiungere lo scopo".
Questo spiritualismo all’acqua di rose non ha nulla a che vedere con Gesù Cristo e il suo vangelo. Il cristiano vero è colui che si impegna con tutte le sue forze a rendere più abitabile la terra. Tuttavia dobbiamo dichiarare senza ambiguità che il mondo sarà totalmente compiuto solo quando sarà completamente sotto la signoria di Cristo risorto e l’uomo nascerà definitivamente solo quando entrerà nella risurrezione. Nulla di quanto Dio ha creato sarà distrutto perché "Dio ha creato tutto per l’esistenza" (Sap 1,14); non sostituirà i cieli e la terra attuali con altri cieli e un’altra terra; ma questi cieli e questa terra saranno trasformati. Il nostro mondo materiale, creato per l’uomo, partecipa al suo destino. Esso, maledetto a causa del peccato dell’uomo (Gen 3,17), si trova attualmente in una situazione violenta sottomesso alla caducità e alla schiavitù della corruzione. Ma come il corpo dell’uomo è destinato alla gloria, così anche il mondo sarà oggetto di redenzione e parteciperà alla libertà dello stato glorioso (cfr Rm 8,19-23).
La filosofia greca voleva liberare lo spirito dalla materia considerata come cattiva; la risurrezione libera lo spirito e la materia.
L’universo materiale e l’uomo non sono realtà separabili. L’uomo è nato dal mondo e fa corpo con esso; è una parte, la migliore, di esso. La vita del cosmo ha il suo culmine nell’uomo. Il Figlio di Dio fatto uomo attira tutto a sé per portare tutto al Padre; guida tutto l’universo al suo compimento. Non sappiamo come sarà il mondo rinnovato e non intendiamo fare della fantateologia. "Secondo la promessa noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova nei quali avrà stabile dimora la giustizia" (2  Pt 3,13). L’azione sociale, culturale, politica, caritativa, l’impegno dell’uomo in tutte le sue forme non faranno maturare, da soli, questo nuovo mondo. La salvezza dell’uomo e del cosmo è la salvezza di Dio che corona gli sforzi dell’uomo.
L’uomo non raggiunge Dio uscendo da questo mondo, ma inserendovisi e collaborando al disegno del Creatore. È questo il disegno del Padre: fare di Cristo il cuore del mondo.
La risurrezione di Gesù "è quasi la prima esplosione d’un vulcano, a indicare come nell’intimo del mondo già arda il fuoco di Dio, che avvolgerà ogni cosa d’una beata incandescenza nel suo fulgore. Già sono liberate dal centro e dal cuore del mondo, in cui egli penetra scendendo nella morte, le energie nuove d’una terra trasfigurata, già nell’intimo più riposto di tutto il reale, la caducità, il peccato e la morte sono vinti. Occorre ancora solo il breve intervallo che chiamiamo storia "post Christum natum", perché universalmente, non solo nel corpo di Cristo, venga a manifestarsi ciò che in realtà è ormai accaduto" (Karl Rahner).
19.4 Amen
Amen è un termine ebraico che si è acclimatato ormai in tutte le lingue. È il punto finale del Credo, la chiusura solenne.
È l’adesione piena, il sì deciso a tutto quanto è stato proclamato. È l’impegno a testimoniare la verità con le parole e con la vita.
Nel Nuovo Testamento la parola Amen viene riferita a Cristo come nome proprio a titolo di testimone vero delle promesse di Dio: "Così parla l’Amen… (Ap 3,14). "E in realtà tutte le promesse di Dio in lui sono divenute "sì". Per questo sempre attraverso lui sale a Dio il nostro Amen per la sua gloria" (2Cor 1,20).


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