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PENSIERI SULLA VITA CRISTIANA

Indice: Introduzione • La fede • Il mistero pasquale • La carità

Introduzione

Che cosa significa essere cristiani? La domanda può sembrare superflua: è tutta la vita che ci sforziamo di vivere da cristiani! Eppure la domanda va posta, oggi più che mai. Forse fino a ieri nelle nostre regioni il cristiano poteva vivere il suo cristianesimo così, semplicemente, senza sentire la necessità di "pensarci su" perché tutti erano cristiani, perché la pratica del cristianesimo apparteneva alla "normalità" della vita. Chi non andava a messa era segnato a dito, era fuori dalla normalità. Oggi non è più così, anzi, sembra esattamente il contrario.
Oggi il cristiano vive in un mondo dove altri, molti altri, la pensano diversamente. E questi altri non sempre sono più cattivi di lui: spesso sono onesti nel loro lavoro, sanno sacrificarsi per ideali nobili e grandi; su alcuni punti il cristiano ha da imparare da loro.
E allora si pone il problema: che cosa ha il cristiano di diverso dagli altri? In che cosa si deve distinguere da loro nelle singole azioni e, ancor più, nell’orientamento generale della sua vita? Siamo convinti che una domanda posta così, a bruciapelo, troverebbe molti imbarazzati a dare una risposta.
Il cristianesimo ha venti secoli di storia e possiede una dottrina immutabile. Ma è anche vero che la dottrina cristiana è vasta e complessa e che ogni periodo della storia evidenzia di più certi aspetti e certe verità che sono richieste dalle situazioni concrete.
Oggi come va presentato il cristianesimo? Su quali aspetti bisogna insistere di più? Ecco quanto ci proponiamo di esporre. Non aspettiamoci nulla di sostanzialmente nuovo, ma una nuova esposizione delle verità di sempre.
Possediamo il grande lavoro compiuto dallo Spirito Santo e dai pastori della chiesa nei documenti del Concilio Vaticano II. Questi documenti saranno la base della nostra riflessione.

LA FEDE

Non si può definire la vita cristiana senza partire dalla fede. Il cristiano è colui che crede. La sua fede sarà più o meno convinta, più o meno personale, influirà più o meno sul suo modo di vivere, ma senza di essa non c’è vita cristiana.
Quando si comincia a discutere sulla fede, si resta impressionati dal gran numero di problemi che essa pone. Non è nostra intenzione entrare in questo intricato argomento. Vogliamo invece dirigere la nostra attenzione sul contenuto della fede e chiederci qual è il nucleo centrale, la sua caratteristica principale, la sua ossatura.
Possiamo distinguere vari aspetti.
1 - Credere è incontrarsi con qualcuno
Siamo troppo abituati a considerare la fede come l’accettazione di un certo numero di verità che riguardano la nostra vita presente e la nostra salvezza eterna. La fede è invece, innanzitutto, un incontro personale, l’accettare che un Altro invada la mia esistenza, il dipendere da lui, il fidarsi di lui, l’abbandonarsi a lui, il lasciare che egli prenda in mano la guida della mia vita.
Credere vuol dire rinunciare alle proprie sicurezze, accettare di essere messo in discussione, secondo la parola di Gesù: "Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà" (Lc 17,33).
"Ciò significa rinunciare a prendersi come fondamento della propria vita, rinunciare a spiegare la propria vita a partire da noi stessi. Perdersi vuol dire buttarsi via come metro di valutazione, accettare invece Dio come misura, come ragione" (E. Balducci).
Ciò spiega la difficoltà dell’atto di fede per l’orgoglio umano che cerca soprattutto l’autoaffermazione, l’indipendenza, l’autosufficienza.
Ma, cosa strana, è proprio nell’accettazione di Dio che io trovo me stesso, la mia personalità, la mia gioia più grande, la valorizzazione delle mie qualità. È invece nel rifiuto di Dio che io mi trovo isolato, povero, alienato.
Possiamo applicare alla fede le belle parole di s. Agostino: "Non so in quale modo inspiegabile, chiunque ami se stesso e non Dio, non si ama; e chiunque ami Dio e non se stesso, quegli si ama".
Tutti abbiamo incontrato persone che non hanno ancora trovato Dio o l’hanno rifiutato e, forse senza accorgersene, hanno una tale sicurezza di sé che li squalifica. Cercando se stessi, perdono se stessi. Non hanno ancora accettato un Altro a cui sottomettersi, e così essere salvati.
2 - Credere è accettare l’amore di Dio
Credere è incontrarsi con Dio, un Dio che mi ama da sempre. "In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati... Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore" (1Gv 4,10.16).
Credere all’amore di Dio è dare un nuovo significato a tutta la vita, è introdurre in noi un principio di ottimismo, di gioia, di slancio, di rinnovamento. Significa vedere se stessi, tutto il creato, tutti gli avvenimenti come opera dell’amore. Significa partecipare allo sguardo positivo di Dio su tutta la creazione: "Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona" (Gen 1,31).
Credere nell’amore di Dio significa credere che tutto ciò che mi circonda, in ultima analisi, è buono. Non significa certo chiudere gli occhi davanti alla realtà del peccato o del male, ma credere che, prima e dopo il peccato, c’è l’amore: l’ultima parola e l’ultima mossa ce l’ha l’amore.
Credere all’amore significa saper riconoscere in tutte le creature un segno dell’amore di Dio verso di me. Ma significa ancor di più riconoscere l’amore di Dio nella prova, mantenere la serenità e la gioia nella tentazione e nel dolore. Mentre quelli che non hanno la fede escono amareggiati o disperati dalle prove subite, chi crede ne esce più sereno, più buono, più vero, più genuino.
Dice l’apostolo Giacomo: "Considerate perfetta letizia, fratelli miei, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla... Beato l’uomo che sopporta la tentazione, perché una volta superata la prova riceverà la corona della vita che il Signore ha promesso a quelli che lo amano" (Gc 1,2-12). Credere all’amore di Dio sempre e in tutte le circostanze: questa è la fede.
3 - Credere è accettare la salvezza di Gesù
Tutto quanto abbiamo detto fino ad ora è un presupposto per arrivare al punto centrale. Credere non è soltanto incontrarsi con Dio e credere all’amore di Dio. Credere è riconoscere che Dio "ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati" (1Gv 4,10). In altre parole è ammettere che la salvezza ci viene dall’incarnazione, morte e risurrezione di Gesù. È accettare il mistero pasquale come centro della storia e origine della nostra salvezza. Gesù è la persona in cui si incontrano Dio e l’uomo. In questo incontro abbiamo la pienezza della rivelazione e della salvezza. Cristo è la rivelazione stessa di Dio. In lui Dio si rende presente e visibile a noi (cfr. Gv 14,9). In lui si manifesta l’amore di Dio per noi: un amore capace di abbassarsi, di rendersi simile alla persona amata, di partecipare tutta la sua vita, le sue attività, le sue sofferenze; un amore che è stato capace di dare la vita per coloro che ama.
Se la fede è credere nell’amore di Dio, questa fede trova in Gesù una concretezza palpabile (cfr. 1Gv 1,1): l’amore di Dio ha trovato in Gesù la sua più piena manifestazione e realizzazione.
Ma in Gesù abbiamo anche la rivelazione dell’uomo a se stesso. Perché Gesù è veramente uomo e in lui noi vediamo ciò che siamo chiamati a diventare. "Nel Cristo l’uomo scopre ciò che può e deve diventare per essere uomo. Il mistero dell’uomo è la sua attitudine essenziale a divenire, per mezzo di Cristo, ciò che è Cristo" (F. Varillon).
In Gesù abbiamo dunque la rivelazione di Dio e dell’uomo. Di Dio, in quanto capacità di dare e di darsi; dell’uomo, in quanto capacità di ricevere e di essere elevato.
In Gesù non abbiamo soltanto la rivelazione, abbiamo anche la salvezza.
Questa è avvenuta in due modi distinti e complementari.
Anzitutto con l’incarnazione di Gesù; assumendo la natura umana egli ha elevato tutta l’umanità: "Poiché in lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata, per ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a dignità sublime. Con l’incarnazione, il figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo" (Concilio Vaticano II, GS 22).
Ma la salvezza è stata pienamente realizzata mediante la morte e la risurrezione di Cristo.
Per troppo tempo si è insistito su un modo di spiegare la redenzione unicamente attraverso la morte di Cristo: Gesù, morendo, ha espiato le nostre colpe, ha pagato per i nostri peccati, e così ci ha dato la salvezza.
Questo modo di presentare la redenzione, un modo giuridico, non va rinnegato, ma completato da una presentazione più biblica. Il Figlio di Dio, incarnandosi, ha assunto la nostra carne di peccato (cfr. Rm 8,13; 1Tm 3,16) e così, pur senza aver commesso peccati, è diventato solidale con tutta l’umanità peccatrice. Con la sua morte in croce, liberamente accettata, egli ha distrutto questa carne di peccato (cfr. Rm 8,3; Ef 2,14-16; Col 1,22) e così ha meritato di risorgere a vita nuova, quella che gli compete come Figlio di Dio (cfr. Fil 2,9). Ma ha compiuto tutto questo non come singola persona, ma come capo della nuova umanità (cfr. Rm 5,15; 1Cor 15,20). In Cristo è tutta l’umanità che è morta al peccato ed è risorta a una vita nuova.
L’opera di redenzione dunque è stata compiuta in due tempi, che corrispondono ai due aspetti, negativo e positivo, della nostra salvezza: con la morte è stato distrutto il peccato, con la risurrezione è stata acquistata la grazia.
Comprendiamo così le parole di san Paolo: "Gesù Cristo nostro Signore è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione" (Rm 4,25) e anche quanto afferma il prefazio di Pasqua: "È lui che morendo ha distrutto la morte e risorgendo ha ridato a noi la vita".
Come vedremo meglio in seguito, la vita cristiana consiste nella partecipazione sempre rinnovata alla morte e alla risurrezione di Cristo. Il cristiano deve morire al suo peccato e risorgere alla vita della grazia che non è altro che la partecipazione alla vita gloriosa di Cristo risorto.
Cominciamo a capire meglio la natura della fede: non è soltanto accettazione passiva di alcune verità che Dio mi comunica, ma è partecipazione attiva di tutto me stesso al contenuto di queste verità; non è solo adesione dell’intelligenza, ma trasformazione di tutta la mia vita.
4 - Fede e obbedienza
La fede è un atto di obbedienza per Abramo, nostro padre nella fede: "Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli" (Rm 4,18); "Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava" (Eb 11,8).
La fede è stata un atto di obbedienza per Maria "Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto" (Lc 1,38); "Beata colei che ha creduto all’adempimento delle parole del Signore" (Lc 1,45).
Di Gesù non è esatto dire che ha esercitato la fede. Ma tutta la sua vita è stata un atto di sottomissione al Padre "facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce" (Fil 2,8).
"Tale deve essere la vita del cristiano: egli deve riprodurre in sé la sottomissione totale di Cristo. Cristiano è l’uomo che "vive di fede" (Rm 1,17), che cioè ha regolato tutta la sua esistenza sull’unica possibilità aperta da Gesù Cristo, il Figlio di Dio, obbediente per noi fino alla morte di croce: quella di partecipare al sì obbediente, che redime il mondo, detto da Dio" (H. Urs Von Balthasar).
La vita del cristiano deve dunque essere un’accettazione e una sottomissione alla volontà di Dio senza limiti e senza riserve. Non si insisterà mai abbastanza su questo aspetto della fede, come rinuncia a se stessi e apertura alla volontà di Dio.
Il cristiano si perde per ritrovarsi: si perde a se stesso, al suo piccolo io personale, ai suoi interessi meschini, per ritrovarsi su un piano universale, quello di Cristo, che include tutti gli uomini e tutto l’universo.
5 - Fede e preghiera
I momenti privilegiati, nei quali la fede si esprime con intensità particolare, sono i momenti della preghiera.
Per la maggior parte dei cristiani, la preghiera è un peso, una necessità a cui bisogna sottomettersi o, comunque, un qualcosa che non ha particolare relazione con il resto della vita.
La preghiera invece è il momento in cui si rinnova la propria coscienza di essere cristiano e si vive intensamente il proprio cristianesimo.
La preghiera è il mezzo per attaccarsi a Colui a cui si domanda e per distaccarsi da ciò che domandiamo.
Quando si è pregato bene non ci interessa più di ottenere quanto abbiamo domandato nella preghiera, ma l’unica cosa che desideriamo è che sia fatta la volontà di Dio: "Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice. Però non come voglio io, ma come vuoi tu" (Mt 26,39).
Senza preghiera non c’è vita cristiana. Ma senza la vita vissuta, la preghiera è sterile. Dalla preghiera la vita riceve luce, forza, generosità, significato, slancio. Dalla vita la preghiera riceve la materia su cui agire. Bisogna che la vita entri nella preghiera, perché la preghiera illumini la vita.
La preghiera diventa dunque il momento indispensabile perché tutta la vita sia condotta sotto lo sguardo di Dio, sia donata a lui, perché sia una vita di fede, una vita cristiana.

IL MISTERO PASQUALE

Il cristiano è colui che accetta con fede il mistero della salvezza che consiste essenzialmente nella morte e risurrezione di Cristo.
Il cristiano deve far sua la salvezza di Gesù, deve renderla operante nella sua vita. Otterrà tutto questo partecipando alla morte e risurrezione di Cristo. Questo è il centro della vita cristiana.
Diceva s. Paolo: "Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo del quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo... Difatti io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo" (Gal 6,14-17); "Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Gal 2,20).
Consideriamo questa partecipazione alla morte e alla risurrezione di Cristo sotto tre aspetti: sacramentale, morale e finale.
1 - Morte e risurrezione sacramentale
Dopo l’incarnazione, Dio ha stabilito di comunicarsi agli uomini dotati di sensi, mediante segni sensibili. La salvezza ci giunge dunque, in via ordinaria, mediante i sacramenti. I sacramenti sono il primo modo di partecipare alla morte e risurrezione di Cristo. Ne prendiamo in considerazione tre che sono i più significativi.
a) Il battesimo
Dice Paolo: "O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione. Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto è ormai libero dal peccato. Ma se siamo morti con Cristo, crediamo anche che vivremo con lui, sapendo che Cristo, risuscitato dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù" (Rm 6,3-11).
Pensiamo che s. Paolo, scrivendo questa pagina, avesse dinanzi agli occhi il rito del battesimo per immersione, in cui è più evidente il simbolismo della partecipazione alla morte e alla sepoltura di Cristo (immersione nell’acqua) e della partecipazione alla sua risurrezione (uscita dall’acqua). Ma il significato del battesimo è la morte e la risurrezione di Cristo, che diventa la morte e la risurrezione del cristiano: ciò che allora è avvenuto nel Capo ora avviene nelle membra.
b) La penitenza
Il cristiano, che è morto con Cristo nel battesimo, ha stretto una alleanza con Dio. Questa alleanza da parte di Dio è definitiva "perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili" (Rm 11,29). Ma non è così da parte dell’uomo. L’uomo vecchio non è mai definitivamente morto; può sembrare rinascere e di fatto rinasce tutti i giorni. La vita divina che ci è stata donata può essere perduta. Ecco dunque la necessità di un sacramento che permetta al cristiano di morire e di risuscitare di nuovo con Cristo tutte le volte che sarà necessario.
Nella penitenza ci è sempre data la possibilità di iniziare di nuovo. È questa una delle caratteristiche più belle della vita cristiana: ad ogni istante abbiamo la possibilità di morire al nostro peccato e di risorgere a una vita nuova.
c) L’eucaristia
Nell’eucaristia viene ripresentato il mistero pasquale. Ciò che è avvenuto nel battesimo, ed è stato rinnovato nella penitenza, viene reso perfetto nell’eucaristia. Si comprende così come la celebrazione dell’eucaristia sia veramente il centro della vita cristiana. È lì che il cristiano partecipa pienamente e comunitariamente alla salvezza portata da Cristo, ed è da lì che deve partire ogni iniziativa che realizzi concretamente la sua adesione a Cristo.
2 - Morte e risurrezione morale
Nei sacramenti Cristo viene incontro all’uomo e gli offre la possibilità di morire per vivere con lui. Ma il sacramento non basta, è l’inizio: suppone la vita. Questa morte e questa risurrezione, avvenute sacramentalmente, devono realizzarsi nella vita di tutti i giorni "portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo" (2Cor 4,10).
Che cosa significa morire e risorgere con Cristo?
Morire significa rinunciare sempre più a se stessi, al proprio egoismo, al proprio peccato, a tutto quello che allontana da Dio.
Risorgere significa vivere la vita nuova nella libertà dei figli di Dio, gustare fin d’ora la gioia della risurrezione, possedere fin d’ora il dominio di se stessi, donarsi nell’esercizio della carità verso tutti i fratelli.
C’è uno stretto rapporto tra sacramento e vita: ciò che avviene in maniera misteriosa nei sacramenti deve realizzarsi in maniera chiara, evidente e comprensibile nella vita di tutti i giorni.
Ciò che Cristo ha compiuto sacramentalmente nella Cena, l’ha poi realizzato fino in fondo con la sua passione, morte e risurrezione. La  Cena ha acquistato tutto il suo valore dagli avvenimenti che le sono seguiti. Lo stesso deve essere per il cristiano. Ciò che compie in maniera liturgica nei sacramenti deve poi realizzarlo nell’esercizio della sua vita cristiana. È proprio questo il significato che i cristiani danno ai sacramenti? Abbiamo il fondato sospetto che spesso vengano considerati come fine a se stessi, capaci di conferire una certa tranquillità alla coscienza e di dispensare dal tirare le conseguenze pratiche.
Il sacramento dev’essere il punto di partenza: rimane sterile, inefficace se non trasforma la vita.
3 - Morte e risurrezione finale
In questa vita la nostra partecipazione alla morte e alla risurrezione di Cristo non è mai completa. Ma arriva il momento in cui questa partecipazione diventa piena e definitiva: il momento della nostra morte.
La morte come completamento della vita del cristiano, che dà la possibilità di vivere con Cristo, è mirabilmente espressa da s. Paolo: "Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno... Desidero di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo: sarebbe la cosa migliore" (Fil 1,23). Sant’Ignazio di Antiochia (+107) nella sua lettera ai Romani li esorta a non fare nulla per impedirgli il martirio: "Lasciate che io sia pasto delle belve, mediante le quali mi è dato di raggiungere Dio... Ora, in catene, imparo a spogliarmi di ogni desiderio... Quanto è per me più glorioso morire per Cristo Gesù che regnare su tutta la terra, fino agli estremi confini. Io cerco colui che è morto per noi; io voglio colui che per noi è risorto. Ecco è vicino il momento in cui sarò partorito... Lasciate che io raggiunga la pura luce. Giunto là, io sarò veramente uomo. Lasciate che io imiti la passione del mio Dio. Chi ha Dio nel cuore comprende quello che io bramo. Le mie brame terrene sono crocifisse... Pregate per me, affinché possa raggiungere il mio intento".
La morte, liberamente accettata, è il culmine della vita cristiana. Tutta la vita è piena di avvenimenti dolorosi che resterebbero senza spiegazione se non diventassero una concreta possibilità di unirsi alle sofferenze e alla morte di Cristo per regnare poi con lui. Le sofferenze di qualunque genere sono per noi il modo concreto per partecipare alla sofferenza di Cristo e offrire tutto, insieme con lui, al Padre per la redenzione del mondo. Diceva s. Paolo: "Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la chiesa" (Col 1,24).
L’accettazione libera delle piccole e grandi sofferenze è così per ognuno la preparazione più bella per saper accettare e offrire l’ultima grande sofferenza che è la morte.
Ma questo è solo il primo aspetto, quello negativo. Resta l’altro, il più bello, quello positivo, al quale il primo è ordinato. Come la morte fisica mi aiuta a comprendere le mie piccole "morti" quotidiane, così la risurrezione finale getta la sua luce sulla mia vita di tutti i giorni. S. Paolo ci dice: "Con lui (Cristo) siete stati insieme risuscitati... Con lui Dio ha dato vita anche a voi che eravate morti per i vostri peccati" (Col 1,12-13); "Dio ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo... Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Gesù Cristo" (Ef 2,4-6).
Tutta la nostra vita quindi è già illuminata, non solo dalla speranza, ma anche da una certa presenza reale della vita futura.
Per il cristiano non ci sono più situazioni disperate. Tutto può essere ripreso, rinnovato: su ogni maceria si può ricominciare a costruire.
A tutto c’è rimedio, anche alla morte. Bisogna giungere fino alla morte per conoscere la gioia della risurrezione.

LA CARITÀ

1 - L’ordine della natura
Tutto ha avuto origine da un atto d’amore. Prima che io esistessi, Dio mi ha amato e ha preparato per me l’universo come mia abitazione. È l’amore che spiega l’esistenza delle creature, la loro bellezza, la loro bontà, la loro ricchezza e varietà.
Dio ha affidato all’uomo la sua creazione: "Il Signore prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse" (Gen 2,15).
È da notare che il comando del lavoro è stato dato da Dio prima del peccato.
Ciò significa che il lavoro originariamente non ha significato di castigo, ma anzitutto un senso positivo. "L’uomo..., creato a immagine di Dio, ha ricevuto il comando di sottomettere a sé la terra con tutto quanto essa contiene, e di governare il mondo nella giustizia e nella santità" (Concilio Vaticano II, GS 34).
Fatto a immagine di Dio creatore, ogni uomo che lavora è creatore. Ogni cosa dunque deve suscitare in me la riconoscenza verso il Creatore, sia che venga direttamente dalle sue mani, sia che venga dalle mani dell’uomo lavoratore e creatore.
È impossibile contare le cose meravigliose che Dio ha fatto. Ma è anche molto difficile enumerare quanto io devo alle generazioni che mi hanno preceduto.
Tutto quanto godiamo oggi è dovuto al genio e alla fatica di quanti hanno speso la vita per il progresso: essi hanno seminato quanto noi raccogliamo.
L’uomo ha sostanzialmente corrisposto al comando di Dio. E nel considerare tutte queste cose, la mia riconoscenza va al Signore che le ha volute e agli uomini che le hanno realizzate.
Oggi molti vivono con me sulla terra e la mia vita dipende da molti di essi.
Nello spezzare un tozzo di pane, nell’accendere la luce, nel salire su un treno, il mio pensiero si perderebbe se volessi ricordare tutti quelli che hanno reso possibili queste mie azioni.
Amore di Dio, amore di tanti uomini. Ma l’amore va ricambiato con l’amore.
Devo sentire il desiderio profondo di ricambiare questo amore: verso Dio che è all’origine di tutto e verso i fratelli.
La creazione è stata affidata all’uomo. Oggi è affidata a me: "Eredi delle generazioni passate e beneficiari del lavoro dei nostri contemporanei, noi abbiamo degli obblighi verso tutti e non possiamo disinteressarci di coloro che verranno dopo di noi ad ingrandire la cerchia della famiglia umana. La solidarietà universale, che è un fatto e per noi un beneficio, è altresì un dovere" (Paolo VI, Populorum progressio n. 27).
Questo è il significato cristiano della storia e della vita di ciascuno. Un significato bello, grandioso che conferisce alla vita individuale un valore grande come l’universo.
La vita cristiana è una continua lotta tra egoismo e amore: l’egoismo che desidera accentrare tutto in se stesso ponendo gli altri al proprio servizio, e l’amore che mette se stesso al servizio degli altri.
2 - L’ordine della grazia
Ma tutto questo è ancora il primo livello. C’è un altro campo, inserito nel primo, molto più bello, che dà una dimensione nuova all’esistenza, e potenzia e valorizza lo stesso ordine naturale: il campo della grazia.
L’amore di Dio si manifesta qui con forza nuova: un amore più intimo, più forte, più personale; un amore che vuole l’uguaglianza, che si abbassa, che dà tutto.
Scopriamo così che tutto quanto abbiamo detto finora può essere considerato solo come un teatro su cui si svolge un’altra storia, che è la storia della salvezza.
Quando è iniziata questa storia? Nell’intenzione di Dio ha le stesse dimensioni dell’altra perché tutto è stato creato in vista della salvezza soprannaturale.
È molto bello pensare che tutte le bellezze di questo mondo ci sono state date per uno scopo preciso: la nostra conoscenza e il nostro amore soprannaturale di Dio.
Ma, se nell’intenzione tutto è grazia, nella realizzazione questa nuova storia è iniziata con la creazione dell’uomo e, per quanto ci riguarda, con la vocazione di Abramo (Gen 12). A lui sono state fatte le promesse, con lui è stata stretta un’alleanza, con lui è iniziata la nuova storia dell’umanità.
E, se guardiamo bene, questa storia è divisa in due parti. Nella prima è di nuovo Dio l’unico protagonista, anche se parla attraverso i suoi profeti.
Una storia complessa: di amore e di predilezione da parte di Dio e, spesso, di poca corrispondenza da parte del popolo. Ma la risposta negativa degli uomini mette maggiormente in evidenza il carattere assoluto, gratuito e definitivo dell’amore di Dio. Dio non si stanca di amare, è sempre disposto al perdono, è sempre pronto a ricominciare.
Questa prima parte della storia ha un termine, che è anche il suo culmine: la morte e la risurrezione di Cristo. È il supremo atto di amore. Preceduta da una vita in cui Dio fatto uomo ha partecipato a tutta la nostra debolezza, eccetto il peccato, la morte in croce è la manifestazione più grande dell’amore di Dio per noi. "Dio ha tanto amato il mondo, che ha sacrificato il suo Figlio unigenito, affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16). "Nessuno ha un amore più grande di colui che sacrifica la propria vita per i suoi amici" (Gv 15,13).
Se vogliamo conoscere fin dove è giunto l’amore di Dio per noi, non abbiamo che da alzare gli occhi a Gesù in croce. La croce di Cristo dà una luce nuova a tutto l’universo e a tutta la storia: è la luce dell’amore.
Ma la storia continua. Come nel primo caso, anche qui inizia una seconda parte, in cui gli uomini ricevono il compito di continuare l’opera di Dio.
Vediamo infatti che Gesù, prima di salire al cielo, manda i suoi discepoli: "Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutte le cose che vi ho comandato" (Mt 28,19-20).
Come per la storia della creazione, anche nella storia della salvezza gli uomini hanno così ricevuto l’incarico di condurre a termine l’opera iniziata da Dio. Riflettiamo un istante sulla bellezza di questo incarico. Pensiamo a quale dignità Dio ha voluto elevare la natura umana, rendendola strumento del suo amore.
E gli uomini hanno risposto al comando di Dio. Non tutti, perché, come il giovane ricco del vangelo, alcuni si rifiutano di seguire l’invito. Ma molti, a cominciare dagli apostoli fino a tutti i missionari e a tutti i predicatori del vangelo, hanno fatto conoscere e trasmesso l’opera della redenzione del mondo.
Questo dono è giunto fino a noi. A chi dobbiamo esserne riconoscenti? A Dio, senza dubbi, da cui ogni dono procede; a Gesù, che è morto in croce per noi, e poi a tutti coloro che, nel corso della storia, hanno tenuta viva la fiaccola della fede e l’hanno diffusa per il mondo, affinché giungesse fino a noi.
E ora? Anche qui, la riconoscenza ci deve spingere alla risposta. Noi abbiamo ricevuto, a nostra volta dobbiamo dare. A tutti i cristiani, indistintamente, è affidato il compito dell’evangelizzazione. È una delle scoperte più belle del Concilio: "I laici... chiunque essi siano, sono chiamati come membri vivi a contribuire con tutte le loro forze, ricevute dalla bontà del Creatore e dalla grazia del Redentore, all’incremento della chiesa e alla sua continua ascesa nella santità" (LG 33).
Il compito dell’evangelizzazione ha la durata della nostra vita e la vastità di tutte le persone con cui veniamo a contatto, e anche oltre.
Un compito impegnativo, ma possibile a tutti.
Ci chiediamo se queste idee sono abbastanza vive nel popolo di Dio. Spesso la nostra vita è fondata sull’interesse personale e quindi sull’egoismo. Dovrebbe essere opera degli educatori sviluppare di più l’idea dell’amore disinteressato. Il giovane che si apre alla vita è solito chiedersi: "Che cosa devo fare per stare meglio, per diventare ricco?". Dobbiamo invece sostituire questa domanda con l’altra: "Che cosa posso fare per rendermi utile agli altri? Qual è il contributo che io posso dare alla società?".
3 - Carità e filantropia
La carità è il segno distintivo dei cristiani: "Da questo riconosceranno che siete miei discepoli, se vi amerete gli uni gli altri" (Gv 13,35). Ciò significa che non si può essere veri cristiani se non si esercita la carità verso i fratelli.
Ma la carità è anche caratteristica esclusiva dei cristiani? Solo essi possono praticarla? E uno che non è battezzato non può pretendere di possederla? Veramente non sembra che sia così. Molti che non sono cristiani, o anche che si dicono atei, dimostrano una dedizione verso gli altri così disinteressata e un impegno così forte verso ideali di giustizia e di eguaglianza, che ci si domanda che cosa manchi in questo loro atteggiamento perché possa essere chiamato carità.
Riconosciamo di essere dinanzi a un problema non facile, che turba la coscienza di alcuni cristiani.
Si suole rispondere che la nostra è una vera carità, mentre quella degli altri è una semplice filantropia, e quindi di natura molto inferiore. Si dice che il nostro amore si esercita sotto l’influsso della grazia, mentre la virtù degli altri è un puro sentimento naturale. Ci pare che, dopo il Concilio, questa risposta non si possa più sostenere. Ormai è chiaro che ogni uomo che viene in questo mondo è già salvato da Cristo ed è quindi sotto l’influsso della grazia. Il Concilio lo afferma anche di coloro che non conoscono Dio: "Né la divina Provvidenza nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che non sono ancora arrivati alla chiara cognizione e riconoscimento di Dio, se si sforzano, non senza la grazia divina, di raggiungere la via retta" (LG 16).
Non avranno mai sentito parlare di Gesù o della chiesa, non sapranno neppure che esiste la grazia di Dio, ma per il fatto di appartenere alla natura umana salvata da Cristo, sono anch’essi guidati dalla grazia di Dio.
La differenza tra la carità cristiana e l’amore non cristiano non va cercata in ciò che la carità è, ma in ciò che dovrebbe essere. Se fosse più coerente con la sua dottrina, il cristiano dovrebbe esercitare una carità molto più viva, più forte, più disinteressata. E la ragione è che il cristiano è a conoscenza dei motivi della sua carità. Questi motivi sono grandi e belli.
Anzitutto la carità cristiana è fondata sull’amore infinito che Dio ha avuto per primo verso di noi. Questo amore si è mostrato nel fatto che Dio è voluto diventare simile a noi, è voluto morire per noi. Ma se Dio si è fatto uomo, il cristiano può e deve vedere Dio nell’ultimo dei suoi fratelli: "Ogni volta che voi avete fatto queste cose a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l’avete fatto a me" (Mt 25,40). Tutto ciò deve dare alla carità cristiana una forza ineguagliabile, che manca a chi non crede a questo amore o non conosce il fatto dell’Incarnazione del Figlio di Dio.
L’amore di Dio per il mio fratello mi aiuterà poi ad avere per lui un profondo rispetto. Saprò sempre superare la tentazione di vedervi un oggetto, e vi scorgerò sempre qualcuno amato da Dio e che trova nella sua vocazione alla vita eterna la ragione ultima della sua esistenza.
Ma c’è di più: il cristiano ha dinanzi agli occhi un modello da imitare.
Gesù non è soltanto Dio che si è fatto uomo, ma è anche l’Uomo che ha dato la vita per i fratelli. E con questo ha presentato al nostro amore un esempio infinito. Il comandamento dell’Antico Testamento: "Ama il prossimo tuo come te stesso" è diventato: "Amatevi come io ho amato voi" (Gv 15,12).
L’amore del cristiano, per quanto alto, sarà sempre infinitamente lontano da questo esempio divino che gli è proposto. Pur avendo fatto tutto quanto egli poteva, avrà sempre l’impressione di non aver fatto niente. Questo sentimento toglierà al cristiano quell’autocompiacenza che tarpa le ali.
E c’è un ultimo motivo: Gesù, dopo essere morto, è risorto e con questo ha anticipato la nostra risurrezione finale. Lo stato della vita eterna non è per il cristiano solo un premio che egli attende in seguito alle sue buone opere, ma è uno stato verso cui deve sforzarsi di tendere, come una meta finale, che gli fa sembrare imperfetti e provvisori tutti i risultati ottenuti in questa vita e lo fa tendere verso mete sempre più perfette. Questa visione della fine è fonte per lui di una viva speranza, che gli dà sempre un nuovo slancio per prendere nuove iniziative e gli conferisce un grande ottimismo nella certezza della vittoria finale.
Con tutti questi motivi, che attinge dalla sua fede, il cristiano saprà dare alla sua carità un vigore sempre rinnovato, una dinamicità che non è mai soddisfatta dei risultati raggiunti, una costanza che va al di là di ogni meschinità e di ogni ingratitudine.
Questo è il vero modo di amare il prossimo "per amore di Dio", e non quell’altro, quello di colui che è assolutamente privo di interesse verso la persona a cui fa il bene, ma lo fa soltanto perché gli viene comandato o anche per un certo amore verso Dio.
Non è questa la carità che ci viene richiesta.
È invece vedere Gesù nel fratello, quindi amare lui, personalmente, direttamente, senza intermediari.
L’amore di Dio non dev’essere qualcosa che si frappone fra me e il fratello, ma che ci unisce di più, che dà al mio amore una maggiore vivezza, una maggiore forza, che mi aiuta ad impegnarmi fino alle mie ultime possibilità.


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